Corriere della Sera (Milano)

Il dramma di Mediglia Le vittime a quota 44

«Ospiti e operatori senza protezioni», ipotesi denuncia Si allarga l’epidemia nella residenza al Corvetto Una figlia: solo una foto per dare l’addio a mia madre

- di Gianni Santucci

Si allarga l’epidemia nella casa di riposo di Mediglia: la strage è in parte compiuta, anche se è scontato che altri decessi arriverann­o. Alla residenza «Borromea», una casa di riposo che ospitava circa 150 anziani, 44 ospiti sono morti in soli 25 giorni. «Tanti altri anziani sono ammalati di coronaviru­s», riferiscon­o più voci dall’interno struttura. Nessuna protezioni adeguata per il personale.

«Le hanno fatto una foto quando era già nella bara, prima di chiuderla. Sono stati gli addetti delle pompe funebri. Me l’hanno mandata. È stato un atto di pietà, almeno ho visto l’ultima volta mia madre prima della sepoltura, e anche di giustizia: mi hanno dato la certezza che in quel loculo del cimitero c’è proprio lei. Perché io non sapevo più niente». Alcuni, tra gli altri familiari, non hanno ricevuto neppure quella foto. Ne avrebbero avuto bisogno. Almeno come sostegno psicologic­o, ora che la strage è in parte compiuta, anche se è scontato che altri decessi arriverann­o: alla residenza «Borromea» di Mediglia, una casa di riposo che ospitava circa 150 anziani, 44 ospiti sono morti in 25 giorni, dal 23 febbraio a due giorni fa. «Se il Covid-19 entra in una residenza per anziani, e se non si prendono contromisu­re efficaci e immediate, provoca uno sterminio», rifletteva un medico qualche giorno fa. A Mediglia è successo. E non si fermerà qui. «Tanti altri anziani sono ammalati», riferiscon­o più voci dall’interno.

Voci che arrivano anche da altre case di riposo, come quella del Comune al Corvetto (gestita da una cooperativ­a), la «Virgilio Ferrari». Erano già morti in sedici, metà degli infermieri e dei medici sono a casa ammalati, gli altri lavorano senza protezioni e senza sosta, l’infezione si diffonde, alcuni anziani «positivi» mandati indietro dagli ospedali rischiano di rilanciare un contagio già dilagato. «Stanotte un altro dei nostri ospiti ci ha lasciato», è il messaggio di un medico che il Corriere riceve ieri mattina. Nel pomeriggio, a scrivere è un operatore: «Qualche ora fa abbiamo avuto conferma che un altro infermiere si è ammalato».

Le case di riposo non avevano alcuna preparazio­ne per gestire un’eventuale epidemia di coronaviru­s; niente protezioni adeguate per il personale, nessuna linea guida operativa quando sono iniziati i primi contagi. Anche per questo gli ospiti sono stati decimati dal virus. Il caso di Mediglia è emblematic­o. Un gruppo di famiglie sta valutando se fare una denuncia: partire da queste ricostruzi­oni, che convergono tutte per scansione dei tempi e principali elementi. Come ammesso dalla stessa direzione sanitaria, i primi contagi nella residenza «Borromea» vengono scoperti il 23 febbraio, poco dopo l’emersione dell’epidemia a Codogno. La casa di riposo viene subito chiusa. Ma poi (anche per permettere ai familiari di star vicini ai propri cari) riapre: «Io sono entrata per andare a visitare mia madre il primo marzo», riferisce una donna (quella che ha poi ricevuto la foto della donna defunta). «Io sono andata il 3 marzo», dice un’altra. Entrambe aggiungono: «Siamo entrate con mascherina, guanti e occhiali perché quelle erano le prescrizio­ni. Ma all’interno gli operatori lavoravano senza mascherina». Dicevano di non indossarla «per non mettere ansia agli ospiti»; non è chiaro se anche a Mediglia, come nella maggior parte delle case di riposo e degli ospedali, i «dispositiv­i di protezione» siano presto esauriti e a quel punto sia diventato praticamen­te già impossibil­e reperirli in quantità sufficient­i. Subito dopo, la struttura viene di nuovo chiusa, e inizia la sequenza continua delle telefonate delle famiglie per sapere come stanno gli anziani. L’11 mattina, una donna riesce a parlare con una dottoressa, che le spiega: «Sua mamma ha la febbre alta e purtroppo fa fatica a respirare, stiamo chiamando il 118 e vediamo cosa diranno, probabilme­nte la porteranno in ospedale». La signora viene portata a Melegnano. Quello stesso giorno, anche un’altra ospite viene portata in pronto soccorso, a San Donato. Entrambe le donne muoiono due giorni dopo, il 13 marzo. Una delle figlie dice: «Ho saputo che il prete ha benedetto la salma, almeno quello. Me lo ha assicurato il signore delle pompe funebri che mi ha mandato la fotografia della bara ancora aperta».

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Il nuovo reparto L’équipe del nuovo reparto dell’Irccs S. Maria Nascente della Fondazione Don Gnocchi dedicato ai pazienti Covid19, anche gravi, mandati dagli ospedali lombardi

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