Negli ospedali i focolai che ora fanno paura
Il boom di positivi nel reparto di Psichiatria di Niguarda Mascherine della Prefettura per dottori di base e Rsa Strage in una casa di riposo ad Affori: 11 anziani deceduti
Con la città «blindata», le strutture sanitarie, dai reparti non Covid degli ospedali alle residenze per anziani, rischiano di diventare focolai che sostengono il contagio. Ieri il boom di tamponi positivi nel reparto di Psichiatria di Niguarda. Una strage in una casa di riposo ad Affori, con undici anziani deceduti. Come spiega Ilaria Capua, alcune strutture sanitarie potrebbero aver agito da moltiplicatori del coronavirus.
Il 9 marzo è un giorno critico dentro il reparto «Psichiatria» di «Niguarda». Sono rimaste appena 100 mascherine. Curano pazienti complessi, in buona parte trattamenti sanitari obbligatori di persone soccorse in delirio in strada o in casa, o drogati pesanti. Molti di quei pazienti iniziano a mostrare sintomi da coronavirus. Si fa il primo tampone: «positivo». Inizia così una sequenza drammatica di eventi. Pazienti e infermieri che si ammalano, reparto da riorganizzare, tensione, preoccupazione. È una storia emblematica, che rappresenta un rischio sempre più concreto: con la città «blindata», le strutture sanitarie (dai reparti non-Covid degli ospedali, alle residenze per anziani), rischiano di diventare focolai che sostengono il contagio.
La ricognizione fino a ieri sera racconta di due operatori Covid-positivi al 118 di Milano; infermieri malati e isolati nel «convitto» di Niguarda; mascherine da riciclare per otto giorni al Pio albergo Trivulzio; una nuova strage in una residenza sanitaria, la Casa famiglia per anziani ad Affori: in un solo reparto, su 35 ospiti, 11 sono morti e una decina sono ancora malati.
Un rischio sottolineato ieri dalla virologa Ilaria Capua, che in un’intervista a Le grand continent, in Francia, ha posto il problema di alcune strutture sanitarie che potrebbero aver agito da moltiplicatori del coronavirus. Accade, in buona parte, per la disastrosa carenza di protezioni. La prefettura ha individuato questo tema chiave da giorni e ha reperito «in proprio» (grazie ad aiuti e donazioni) quattro mila mascherine chirurgiche per le case di riposo, 2.450 a filtraggio elevato per i medici di base, altre sei mila per le forze dell’ordine.
Il reparto «inedito»
Il Corriere può ricostruire nel dettaglio la storia del Niguarda grazie a una serie di documenti arrivati in Ats. Il 10 marzo, dopo il primo paziente positivo, sono previsti tamponi per tutti gli operatori, ma la procedura viene annullata. Si fanno invece sui pazienti: tra «Psichiatria 1 e 2», i positivi sono 11, talmente tanti che il giorno dopo si decide di «spaccare» il reparto. I positivi da una parte, i negativi da un’altra. Nasce così un inedito reparto ospedaliero di «Psichiatria-Covid», una sorta di infettivologia psichiatrica: ma senza che il personale abbia esperienza e senza i sistemi di sicurezza necessari (mascherine ad alto coefficiente di filtraggio, camici, occhiali). «Tutto ciò è stato fatto senza dispositivi di protezione individuale adeguati», denunciano i lavoratori. Infettivologi e anestesisti che vanno a fare consulenza sono «molto preoccupati». Otto infermieri e operatori si ammalano. Un paio sono in condizioni gravi, un altro è isolato dentro un convitto con spazi comuni. E per ora nessuno può dire quanto sia diffuso il contagio.
«Restate al lavoro» Giovedì una ragazza dell’Areu, il 118, viene portata in ospedale per tosse e febbre. «Positiva». Un altro dipendente è positivo, altri a casa con la febbre. Ma al 118, come al Niguarda, e come in tutti gli altri ospedali, le indicazioni dei responsabili sono unitarie: «Visto il potenziale contatto avvenuto, non è indicato il tampone, ma l’auto-monitoraggio giornaliero con controllo della febbre. In assenza di sintomi, non è prevista l’interruzione del lavoro, ma utilizzare continuativamente la mascherina chirurgica». Di fatto: anche se medici, infermieri e operatori sanitari sono a rischio, anche molto elevato per aver «convissuto» con un familiare o un collega positivo, fino a che non hanno sintomi devono continuare a lavorare. E senza tampone.
«Fateci i tamponi»
Nella complicata alternativa tra cercare di «scoprire» tutti i medici e gli infermieri positivi (e doverli poi lasciare a casa), e non indagare con i tamponi (per continuare a farli lavorare e non sguarnire i reparti), l’autorità sanitaria sta scegliendo di correre il rischio (si vedrà poi quanto elevato) di alimentare il contagio «interno». Anche perché le protezioni scarseggiano.
I sindacati
La Cisl: «Gli operatori a rischio devono fare i tamponi. Si rischia di alimentare il contagio»
Su questo punto la Cisl sta inviando decine di lettere allarmate. Le hanno ricevute le direzioni di tutti gli ospedali: «Si chiede per tutti i lavoratori in situazioni e ambienti a rischio (medicina, psichiatria, soreu metropolitana) che vengano effettuati test diagnostici per rilevare la loro positività».
Obiettivo: scongiurare il rischio che gli operatori sanitari sostengano il contagio. Spiega un’altra lettera, sempre della Cisl: «Il fatto di prevedere che i lavoratori, pur sottoposti a sorveglianza sanitaria, continuino a lavorare pur se potenzialmente infetti, correndo così il rischio di svolgere una involontaria funzione di diffusori del contagio dentro le strutture e nelle loro famiglie, è cosa che riteniamo profondamente sbagliata e che va quanto prima corretta, perché rischia di alimentare la diffusione del virus e di deprivare a breve termine il contingente del personale».