«Dimenticata la direttiva Covid sullo screening dei casi sospetti»
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La circolare del ministero della Salute, numero «0009774» della Direzione generale della prevenzione sanitaria, è datata 20 marzo. Richiama la necessità delle «attività di rintraccio dei contatti in ambito di sorveglianza sanitaria»: «Appare necessario identificare tutti gli individui che sono stati o possono essere stati a contatto con un caso confermato o probabile di Covid-19». Snellisce anche le procedure per accreditare laboratori che possano esaminare i tamponi al di fuori di quelli pubblici. E si conclude prevedendo che «la presentazione di campioni afferenti a personale sanitario dovrà ottenere priorità assoluta e la comunicazione del risultato dovrà avvenire in un arco di tempo massimo di 36 ore». Dunque, necessità del «tracciamento» (centrale dopo la «blindatura» delle città per identificare ed evitare nuovi focolai di contagio), ampliamento dei laboratori per i tamponi e priorità alle analisi su medici e infermieri. La consigliera regionale del Pd, Carmela Rozza, ha esaminato le tre delibere regionali pubblicate nei giorni successivi e si chiede: «Perché a quella circolare non si fa cenno? Perché non si riprendono quelle attività decisive di tracciamento e analisi con i tamponi, in particolare nei luoghi nevralgici che sono diventati gli ospedali e le strutture sanitarie?».
Il tema diventa ogni giorno più centrale, dal momento che (come documentato dal Corriere nei giorni scorsi) gli ospedali e le case di cura e di riposo sono diventati luoghi nei quali, per i molti pazienti e operatori sanitari malati, il rischio di contagio è più elevato. I sindacati (la Cisl è stata la prima a chiederlo con forza) pretendono che medici, infermieri e assistenti facciano il tampone per individuare i malati e tagliare il più possibile i canali di trasmissione del coronavirus negli ospedali. La diffusione del Covid-19 tra il personale sanitario è avvenuto anche perché medici e infermieri, pur se avevano avuto contatti diretto e a rischio con pazienti o familiari «positivi», potevano continuare a lavorare fino a che non avevano sintomi.
Le direttive regionali del 10 marzo, su indicazione delle autorità sanitarie a Roma, prevedevano infatti che «per l’operatore asintomatico che ha assistito un caso probabile o confermato di Covid-19» senza adeguate protezioni, «o l’operatore che ha avuto un contatto stretto con caso probabile o confermato in ambito extra lavorativo, non è indicata l’effettuazione del tampone». Dunque: «In assenza di sintomi non è prevista l’interruzione dal lavoro che dovrà avvenire con utilizzo continuato di mascherina chirurgica». Tradotto: un infermiere con la moglie a casa «positiva» doveva continuare a lavorare con la sola mascherina, senza fare il tampone e senza alcuna identificazione di altri contatti a rischio (il Corriere ha trovato conferma che ciò è avvenuto per almeno tre medici). «Così si è alimentata la diffusione del virus tra il personale medico, che ha lavorato con protezioni inadeguate e senza tracciamento — attacca Carmela Rozza — adesso si applichi la circolare del 20 marzo». L’assessore al Welfare Giulio Gallera replica: «In realtà non abbiamo masi smesso di eseguire in tracciamento, se ne occupano i medici di famiglia e le Ats con migliaia di telefonate, anche se i numeri sono diventati enormi. E per quanto riguarda gli operatori sanitari, stiamo comprando i termometri, ma comunque c’è il tampone per chi lo richiede».
La disciplina per il personale sanitario è stata modificata solo il 23 marzo. La Regione ha stabilito che a inizio turno tutti debbano autocertificare o provare la temperatura: oltre i 37,5 (questa è la novità) verrà fatto il tampone. Di tracciamento e analisi sui contatti del medico o dell’infermiere non si fa alcun cenno.