Dubbi, timori e quarantene in casa: così le famiglie nascondono i sintomi
Il 96% dei milanesi approva la stretta sugli spostamenti ma troppi, anche con febbre, non allertano i dottori Dossier indaga il sommerso. Il caso dei parti a rischio
Tre persone a casa, mamma incinta che deve partorire, papà e un primo figlio piccolo, con la febbre da giorni. La mamma (asintomatica) chiama il pronto soccorso del Buzzi per chiedere di fare il tampone al bambino: purtroppo non ci sono abbastanza test, non è possibile. Non passa neanche una settimana e alla donna si rompono le acque, corre al Buzzi con il marito. All’accettazione non ricollegano la telefonata e lei non avverte, dunque niente di particolare viene riportato nell’anamnesi. Anzi la donna firma il modulo divenuto ormai di prassi: garantisce insomma di non aver avuto contatti con persone positive al virus. Leggerezza o più probabilmente timore di essere spostata in altro ospedale o di rimanere sola in un momento così delicato quale è la nascita di un bambino. Una situazione ad altissimo rischio emersa solo perché il personale del reparto, per caso, ha intercettato un dialogo con il marito, in cui parlavano della febbre.
Il tampone della neomamma, fatto a quel punto in tutta urgenza, pare negativo. E il figlio e il marito? Quale domino di contagi si può creare in simili situazioni? Perché si fa così fatica a rivelare situazioni critiche? Due ricerche — rispettivamente di Homepal e Altroconsumo — mettono a fuoco la dinamica dei contagi sommersi.
Soltanto il 30 per cento di chi ha sintomi simil-influenzali riconducibili al coronavirus si mette in quarantena volontaria e va a vivere da solo, isolandosi completamente. Gli altri sette su dieci, se anche si barricano in casa, continuano a stare con la famiglia: ambienti piccoli, in media 28 metri quadrati per persona, con qualcuno del nucleo che esce comunque per fare la spesa e andare in farmacia. Quel qualcuno, asintomatico, potrebbe aver comunque contratto il virus e quindi trasmetterlo. La criticità è massima, con la convivenza. «C’è una evidente sottovalutazione del rischio», considera Flavio Pellegrinuzzi, analista dell’associazione Altroconsumo. «Le famiglie non hanno a disposizione seconde case e non trovano il modo di smembrare il nucleo per isolare chi inizia ad avere sintomi. Stare insieme diventa l’unica scelta», aggiunge Andrea Lacalamita, fondatore del portale Homepal che ha condotto la ricerca su 900 milanesi. Tre su dieci, in assenza di patologie pregresse o crisi respiratorie, nei primi giorni dei sintomi non consultano neanche il medico di base. Possibile? È un controsenso, questa mancanza di prudenza, a maggior ragione se si considera che il 96 per cento è d’accordo con le misure restrittive varate dalla Regione e dal governo per contrastare la diffusione del virus, continua Lacalamita: «In teoria massimo isolamento, nella pratica reticenza a considerarsi parte in causa». Il crinale che separa l’assenza di panico dall’imprudenza è sottile. Le persone non si rendono conto di quanto avanza la malattia.
Spesso ci sono tracolli improvvisi e quando si decidono a chiamare l’ambulanza i pazienti hanno livelli bassissimi di ossigeno nel sangue. Dagli ospedali, in compenso, arrivano rassicurazioni a 360 gradi. Sono ormai a regime le aree protette che rendono sicura la degenza dei pazienti e il lavoro del personale. Perché restino percorsi separati serve l’aiuto di tutti. Al Buzzi sono ormai una decina i piccoli nati da mamme sospette o positive al Covid; il reparto di Ostetricia ha dedicato otto posti letto in percorso protetto, aumentabili quando sarà necessario, a tutela delle mamme, dei bambini e del personale, con la onlus Obm dell’ospedale che ha donato una prima isola neonatale in una sala parto dedicata, completa di tutti gli strumenti per monitorare con particolare attenzione la salute di tutti. Al Fatebenefratelli il reparto pediatrico è stato spostato invece di piano per fare posto a un nuovo reparto che ospiterà 24 pazienti Covid-19. Obiettivo a fin di bene: tenere gli uni isolati dagli altri.