Sulle ambulanze, a casa e con i malati più gravi La task force è di famiglia
Stefano Accornero è infermiere in Terapia intensiva, la moglie Maura infettivologa, i figli fra studi medici e attività sociali. «Correre il rischio insieme ci dà forza»
«Mai come in queste settimane abbiamo sentito tanto forte il legame tra generazioni diverse. Siamo sei in famiglia, più i nonni che ci appoggiano da lontano. Tutti in prima linea, umani come possiamo, a prenderci il rischio e a correrlo insieme».
È un caso più unico che raro quello degli Accornero: papà Stefano infermiere alla terapia intensiva del Sacco; mamma Maura medico e impegnata ad assistere i malati terminali al domicilio, con Vidas, per alleggerire gli ospedali; un figlio, Giovanni, che ha raddoppiato i suoi turni come volontario in ambulanza; un altro, Pietro, che studia medicina e aiuta come può i colleghi; e ancora i due piccoli che se la cavano da soli a casa mentre gli altri lavorano al fronte, li spronano e li fanno riposare quando tornano dopo i turni massacranti. Una task force, dicono scherzando, ma è una cosa seria: come famiglia danno alla società un contributo sostanziale. Non che sia facile: ognuno arriva a casa, la sera, con immagini terribili da digerire, eppure vedono anche il bicchiere mezzo pieno. «La forza conquistata dentro casa resterà come eredità positiva di questo dramma», afferma Stefano. Vent’anni in pronto soccorso, poi lunga esperienza in endoscopia. Tre settimane fa la chiamata in terapia intensiva.
«In quel momento ho radunato la famiglia — racconta — volevo avere il via libera convinto da tutti, nessuno escluso. Sono loro che non hanno esitato un attimo», riconosce. Al Sacco dove lavora portano pazienti da tutta la
Lombardia, già intubati. «Pochi sopravvivono, magari uno su cinque. Il mio lavoro è tra i letti di corpi addormentati. Tu provi a tenerli in vita, a parlargli anche se non possono rispondere, né sentire. L’altro giorno c’era una ragazza di 28 anni e altri di 40 e 50, in mezzo agli anziani. Il marito di una nostra collega purtroppo non ce l’ha fatta — abbassa lo sguardo —. Ho studiato per diventare infermiere pensando che avrei salvato le vite e di colpo vedo compilare tutto il giorno carte di decesso e mi trovo a fare telefonate struggenti, a sigillare nei sacchi neri corpi che nessun parente ha potuto salutare».
L’intensità emotiva di questi momenti è a tratti insopportabile, solo in parte compensata dai risvegli. «Quando qualche paziente viene “svezzato”, liberato dai tubi, ci sentiamo quasi rinascere anche noi. Loro mi vedono entrare con le tute e la visiera, come un marziano. Mi chiedono: “Ma dove sono? Chi sei?”, e in quel momento vorrei davvero abbracciarli fortissimo e invece non posso neanche sfiorarli».
In alcuni ospedali, come il San Carlo, i medici dividono tra loro i piani con i vari pazienti per colore, a seconda della gravità: il rosso, il giallo, il verde. Il più triste è il blu, sono quelli molto avanti con l’età, per cui nemmeno il casco d’ossigeno è servito e non si può tentare nient’altro: «Li si lascia andare...», si commuove. Il figlio Giovanni, 22 anni, appena tornato dal turno in ambulanza, guarda il padre dall’alto dei suoi quasi due metri di altezza. «Da capo servizio volontario, nelle case dei sospetti covid salgo solo io. Mi stordisce quel “senso di annegamento” che vedo negli occhi dei malati che non respirano, gli manca l’aria. Ma ancora di più mi sconvolgono le facce dei familiari quando prendo il malato e lo porto via, in ospedale. Garantisco che passerò i recapiti ai medici perché diano presto informazioni, è l’unica cosa che posso fare. Sappiamo bene tutti, in quelle case, che quello può essere l’ultimo saluto».
Quando si chiede chi è la roccia di famiglia tutti guardano però la mamma, Maura degl’Innocenti. Specializzata in malattie infettive, ha iniziato negli anni caldi dell’Hiv e poi scoperto una vocazione per le cure palliative. Ora che Vidas ha allargato la rete dell’assistenza domiciliare per alleggerire il carico alle famiglie e agli ospedali, lei dà tutta se stessa. «Io ho il privilegio di entrare nelle case, non posso dare gli ultimi baci per via della mascherina e neanche le carezze, per via dei doppi guanti, ma per nulla al mondo abbandonerei i miei undici pazienti terminali — dice —. È l’unica risposta che ho trovato alla sensazione di impotenza, accompagnarli alla fine nel modo più dolce possibile. Ci metto tutta la gentilezza e l’umanità di cui sono capace».
Le generazioni Mai come ora abbiamo sentito tanto saldo il legame tra età diverse