LETTERE SUL VIRUS
In farmacia
L’affetto e la paura
Caro Schiavi, sono farmacista in una cittadina alle porte di Milano, purtroppo duramente colpita dall’epidemia di Coronavirus. Qui ci sono decine e decine di persone positive, il che è come dire decine e decine di famiglie distrutte dall’ansia e dalla preoccupazione. Qualcuno non è più con noi, e tra questi tanti nostri affezionati clienti. Persone con cui ho parlato fino a dieci giorni fa. La solita spesa, il solito «ciao cara» detto con rispetto e, penso, con affetto guadagnato negli anni in cui abbiamo imparato a conoscerci, le solite battute. Le vecchie e noiose abitudini che oggi ci mancano tanto.
Qualcuno ci chiamava per nome. Ora noi siamo operativi e vogliamo continuare ad esserlo. Ma alle 8 del mattino, con tutti i negozi chiusi e solo la macchina del Comune con l’altoparlante che passa e gracchia di continuo: «Concittadini, non rischiate la vita, state a casa», io sto scendendo dalla mia per aprire la farmacia. Ed esito. Richiudo la porta un attimo. Respiro e poi vado. E lo faccio volentieri, ma un po’ di paura ce l’ho anche io. Paura di prendere il virus e di portarlo a casa dove ad attendermi c’è mia nonna, che non essendo autonoma non può fare a meno di noi.
Tremo al pensiero di trasmetterle il male che ha ucciso tanti suoi coetanei che servivo da dietro il banco e mi chiedevano tutti i giorni quelle mascherine che dallo schermo della tv i politici promettevano e non sono mai arrivate.
Passano i giorni e imparo a convivere con la paura, ma mi assale un forte senso di impotenza e di rabbia covato in queste settimane piene di un inutile sole, trascorse nella speranza finora vana che qualcuno ci fornisse gli strumenti necessari per difenderci da questo nemico. Un aiuto concreto, guanti, mascherine, alcol, per non rischiare di ammalarci, per non essere noi a portare potenzialmente il virus agli altri e per non lasciare le comunità senza un punto di riferimento. Perdoni questo sfogo, spero solo possa essere raccolto da chi ha il potere di migliorare le cose.
Marta Donzelli
Stiamo convivendo con la paura, tutti. Per i nostri cari e per noi stessi. Ci sono amici e familiari che non vedremo più. Stiamo arrivando a diecimila morti in Lombardia, tre volte le vittime del Vajont. È un’ecatombe senza fine. Come lei scrive, il senso di impotenza è collettivo. La mancanza di strumenti di difesa è una colpa grave di politica e istituzioni, soprattutto perché chi stava sul campo rischiando la vita lo urlava fin dall’inizio. È mancata la protezione, l’aiuto concreto attraverso strumenti come mascherine, guanti, alcool, tamponi. E siamo ancora in ritardo, purtroppo.
Decalogo per la sanità
Il rilancio necessario
Qualche giorno fa in risposta al dottor Landonio lei ha indicato i dieci punti neri della sanità lombarda e italiana.
Nella sua conclusione affermava che questo però non è il momento per sparare sul pianista, intendendo per «pianista» chi ha gestito la sanità in questi anni nella Regione e nel Paese. Quando si dovrà interrompere la tregua?
Filippo Salimbeni
La tregua l’hanno interrotta lunedì gli ordini professionali dei medici della Lombardia,
che hanno denunciato l’assenza di strategie nella prima fase dell’epidemia. Appena prima avevo ricevuto un sollecito da parte del professor Marco Vitale, economista dalla schiena dritta: «Totalmente d’accordo sulla sua affermazione che ora “bisogna remare tutti insieme perché ci sono troppi morti da seppellire”. Ma questa raccomandazione non ci deve impedire che contestualmente si utilizzi la sofferenza e l’indisanitari gnazione che ci uniscono per ragionare sulle responsabilità e sul da farsi. Dunque, va corretta la sua conclusione finale: “Come nei saloon del Far West non si spara sul pianista”. Invece, con tutto il rispetto, la solidarietà e la collaborazione del caso verso tutti, compresi i politici, impegnati a tenere testa allo tsunami, non dobbiamo avere paura di sparare sul pianista. Sono proprio i troppi morti e la lista spaventosa dei morti che chiamano a questo compito critico e autocritico».
Di quei dieci punti faremo presto un dossier, con l’aiuto dei medici coraggiosi che abbiamo chiamato eroi: per rilanciare quel servizio sanitario pubblico che è un grande patrimonio nazionale.
Librerie e lavanderie
Aperte sarebbero utili
Non ho mai visto assembramenti nelle librerie, purtroppo. Eppure una delle cose che ci consigliano di fare, in quarantena, è appunto leggere. Tuttavia le librerie sono chiuse. Allo stesso tempo, invece, sono aperti negozi in cui si possono acquistare casalinghi. Aperti anche ferramenta e tabaccai che vendono veleno. Le lavanderie (che poi sono utili per l’igiene) sono invece chiuse, ma non sarebbero da considerare come servizi alla persona?
Lucio Colella
Sono domande legittime: se restano aperte le tabaccherie dove le code ci sono da sempre, perché rinunciare alle librerie oppure ai musei, dove il distanziamento è possibile? Si tratta di rinunce dovute ai protocolli in caso di pandemia oppure è stata fatta una selezione?
Non so rispondere, se non con l’esigenza di sacrifici necessari per superare l’emergenza.