Le due facce della ripartenza
Il Quadrilatero: «Segnali positivi, puntiamo sui clienti italiani». Caritas, anche i camerieri tra i nuovi poveri
Hanno riaperto bar e ristoranti ma, in molti casi, lavorano soltanto i titolari. I camerieri sono in cassa integrazione, ma per effetto di tanti contratti intermittenti, fragili e con sconfinamenti nel «nero», adesso tanti ex lavoratori degli esercizi pubblici milanesi sono in difficoltà e si rivolgono alla rete di solidarietà. La Caritas: «Dopo colf e badanti, adesso ai nostri sportelli arrivano tanti camerieri». Intanto il Quadrilatero della moda tenta di ripartire anche senza il fondamentale flusso di turisti stranieri. In crisi gli hotel di lusso.
I bar hanno riaperto. I banconi sovrastati dalle bottiglie di liquori in bella mostra e quel rumore sempiterno di stoviglie sono — finalmente — tornati a essere punti di riferimento in ogni angolo della città. Due mesi d’assenza hanno fatto percepire ancora di più il valore di quegli approdi sicuri di tanti momenti: dalla colazione al pranzo, dalla pausa caffè all’aperitivo, dalla pioggia improvvisa alla necessità di un bagno. Da lunedì, dietro a quei banconi, sono ricomparsi i volti dei baristi, familiari nonostante le mascherine e i capelli più lunghi. Ma in molti casi soltanto quelli dei titolari. Sono loro a servire cappuccini e spritz. I dipendenti non ci sono e per chissà quanto tempo non ci saranno.
«Cassa integrazione», spiegano i proprietari dei locali, perdendo il sorriso. In effetti, dopo oltre due mesi di stop improvviso e totale, con le nuove regole che sollevano nebbie sul futuro prossimo, la voce «costi del personale» è la prima a entrare nel mirino dei tagli. Soprattutto nelle piccolissime imprese, come appunto bar, ristoranti, piccoli negozi e tutte le attività a conduzione familiare.
Ma dietro a questa scelta si sta consumando una sofferenza di massa che non può non destare qualche preoccupazione: perché nell’area milanese almeno trentamila persone sono abitualmente occupate negli esercizi pubblici e altre 150 mila nel commercio. Troppi stipendi mancanti e, purtroppo, gli ammortizzatori sociali sono un «lusso» di pochi. Risultato: i camerieri di bar e ristoranti stanno ingrossando le file dei nuovi poveri, della nuova ondata di utenti dei servizi di solidarietà. Lo testimoniano gli operatori della Caritas, che raccontano di una prima fase in cui ai loro servizi si rivolgeva una platea tutto sommato abituale, persone fragili a prescindere dalla situazione creata dall’emergenza sanitaria. Poi, nel giro di una dozzina di giorni di sospensione della vita, si sono viste colf, badanti, e addetti alle pulizie e alle mense e a tutti i servizi in appalto, quindi la terza ondata: i lavoratori della ristorazione. «A grandi linee potremmo dire che il 50 per cento delle persone in coda agli empori è costituito da badanti e colf, il 40 per cento da camerieri e lavapiatti, il resto da imbianchini e partite Iva povere», sintetizza dil direttore della Caritas Ambrosiana Luciano Gualzetti. Che aggiunge: «Tante persone mai incrociate prima».
E, in effetti, viene da chiedersi come possa avvenire lo scivolamento verso una condizione di povertà per persone che fino a due mesi fa avevano un lavoro con il quale avevamo contatto quotidiano.
Una spiegazione di cosa stia accadendo la offre Antonio Verona, che studia il mercato del lavoro per la Cgil milanese: «Certo, c’è la cassa integrazione, ma a parte i ritardi burocratici che qui in Lombardia stanno creando disagi importanti, va detto che molti camerieri lavoravano nei bar e nei ristoranti con contratti a chiamata: ma non di rado negli accordi tra titolare e lavoratore le ore dichiarate ufficialmente erano molto inferiori a quelle lavorate effettivamente e pagate in nero. Il risultato, adesso, è che quelle persone percepiscono assegni di cassa integrazione davvero miseri, in certi casi 180 euro mensili». E, complessivamente, si stima che nell’area di Milano non siano meno di 250 mila i lavoratori con contratti intermittenti, quindi potenzialmente esposti a queste dinamiche.
L’uragano dell’emergenza sanitaria, insomma, sta lasciando dietro di sé una scia di detriti sociali. «Stanno venendo a galla le fragilità di questa città — sottolinea di nuovo Gualzetti — a partire dal lavoro nero, che in molti avevamo denunciato perché non conviene a nessuno, a Milano, avere così tante persone prive di qualsiasi tutela». Per effetto di questa situazione i centri di ascolto della Caritas sono diventati un sensore importante dello stato di salute economica di alcune fasce della popolazione metropolitana: dopo aver distribuito una prima serie di aiuti finanziari a 250 famiglie, il Fondo San Giuseppe sta per erogare risorse a altrettante persone, tra le circa 800 che ne hanno fatto richiesta. «Con la situazione che si è creata per l’emergenza sanitaria abbiamo raddoppiato la capacità di aiuto del fondo — sottolinea il direttore Gualzetti — perché a Milano ci sono famiglie che hanno bisogno di aiuto immediato».
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