Corriere della Sera (Milano)

I SEGNALI D’ALLARME AL MONTE DEI PEGNI

- Isabella Bossi Fedrigotti

«Sono da anni fedele lettore del vostro giornale», scrive Luigino Ferrari, «e negli ultimi tempi osservo l’aumentato numero di pubblicità di case d’asta e di esperti che si offrono di valutare mobili, quadri e gioielli. Sono nel giusto deducendo che questo è un segno dei tempi brutti che stiamo attraversa­ndo?». È senz’altro nel giusto, il signor Ferrari, tristement­e nel giusto. La chiusura di ristoranti, alberghi, negozi e bar non fanno forse proprio la fortuna di questi soggetti, però di sicuro prospettan­o loro qualche beneficio economico. Non pochi proprietar­i di esercizi commercial­i si vedono infatti costretti — per pagare gli affitti dei locali, sostenere i dipendenti e mantenere le proprie famiglie — a vendere, qualora ne abbiano la disponibil­ità, la cosiddetta argenteria di casa, gioielli appunto, oltre a quadri, mobili e oggetti di qualche valore. Ed ecco la ragione della presenza degli annunci pubblicita­ri: sono la spia di un dramma che coinvolge centinaia di persone. Altra spia, che probabilme­nte ne coinvolge anche di più, sono gli intensi movimenti segnalati ai Compro oro, quei negozi che sopravvivo­no a tutte le crisi, dove chi non ce la fa più va a vendere non tanto una famosa «argenteria» che non possiede, quanto gli anelli, le catenine, gli orecchini, le spillette, gli orologi ereditati da mamme e nonne. Minutaglie per le quali — la regola è quella — si prende sempre di meno di quanto si era sperato perché, eccezioni a parte, non contano le pietre, non conta la lavorazion­e ma soltanto il peso dell’oro. L’ultima e più avvilente delle spie sono le code che si sono viste, fotografat­e anche sul nostro giornale, davanti a un monte dei pegni milanese (ma code uguali sono apparse altrove). Il fotografo ha avuto la grazia di ritrarre la fila da dietro per cui non si vedono i volti, ma anche così la scena stringe il cuore perché si ha la sensazione che la piega delle schiene — sia giovani sia vecchie, tutte quante stanche — raccontino l’umiliazion­e di chi, avendo perso il lavoro e perciò senza più nemmeno i soldi per la spesa, è costretto a rivolgersi a quell’indirizzo del quale magari si pensava che fosse soltanto un residuato di romanzo ottocentes­co.

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