Hikikomori alla milanese
Il giallo in dialetto di Daniele Gaggianesi
Può una lingua in via di estinzione aiutarci a comprendere la civiltà contemporanea? La risposta arriva da un libro, «qohèlet rejected», uscito da poco per Schena Editore, dopo aver conquistato il Premio Giovanni Testori: un romanzo giallo in poesia, ambientato in un futuro prossimo, tra il 2022 e il 2042, e ispirato al Qoelet o Ecclesiaste, il libro più controverso dell’Antico Testamento. «Da tempo nutro una fascinazione verso questa lettura che fa riflettere sulle contraddizioni dell’animo umano», spiega l’autore Daniele Gaggianesi, 36 anni. «È successo che un giorno sono venuto a conoscenza degli hikikomori, persone, perlopiù teenager, che per un disturbo psicologico scoperto in Giappone negli anni 90 si auto-recludono, spesso costruendosi una vita da iperconnessi».
Da questo spunto è affiorata una trama che ha come sfondo la nostra città: il protagonista è un giovane hikikomori della Barona finito in una rete di hacker intenta a organizzare un crimine internazionale, e frequentatore di chat in cui si presenta al mondo come il qohèlet, il tutto esprimendosi in dialetto milanese. Già, perché l’idea è proprio questa: che il meneghino, in quanto lingua antica che non viene quasi più utilizzata e che, quindi, non è invischiata nelle faccende terrene e nell’attualità, possa regalarci un osservatorio privilegiato da cui indagare la realtà. «È come se nella mia opera», afferma Gaggianesi, fan di Delio Tessa come di Walter Valdi ed Enzo Jannacci, «il meneghino si trasformasse nell’idioma di un emarginato, di un distanziato sociale, come diremmo oggi: attraverso quel filtro, dalla stanza di un appartamento in una traversa di viale Famagosta, via Adami, il protagonista di “qohèlet rejected” riesce a cogliere cosa si cela dietro all’apparenza tutta sorrisi e positività che domina su Internet e nell’universo digitale: un mondo in lacrime, sofferente».
Non c’è una morale, non c’è un eroe che ha compreso come liberarsi dalle contraddizioni dell’Occidente; quello descritto è, semmai, un percorso di consapevolezza al termine del quale ciò che si riconosce è che tutto è vanità, come si legge nell’Ecclesiaste. Ora l’intenzione è di portare il testo a teatro, dato che oltre che scrittore Gaggianesi è uno dei tanti attori che con il coronavirus si è ritrovato costretto a casa. «Ero in tournée con un adattamento de “Gli uccelli” di Aristofane e “Conversazioni sull’amore”, co-produzione tra Italia, Slovenia, Montenegro e Albania che stavamo portando in giro per l’Europa». Poi è scattato il lockdown e un nuovo progetto ha preso forma. «Nelle scorse settimane ho chiesto ad alcuni anziani, la categoria più colpita dalla pandemia, di inviarmi fotografie dal loro isolamento a cui abbinerò delle poesie. Il risultato sarà una mostra a Casa Testori». Al centro, ancora una volta, il milanese. «L’ho imparato dai nonni paterni, non parlavano che quello, ma volevano che rispondessi in italiano. A me dispiaceva, ma penso ci fosse un retaggio culturale risalente all’epoca fascista, quando il dialetto ha iniziato a essere considerato la lingua dei poveri da cui emanciparsi. Poi però nel periodo dell’adolescenza ho cominciato a disobbedire e a usarlo: da lì è diventato parte di me».