Le ceneri del bandito nella Martesana
Urna e piccolo corteo sulla sponda del canale: la moglie esaudisce la volontà di Jess
Un insolito rito funebre sulla sponda della Martesana, a Crescenzago. Ieri mattina sono state disperse nel Naviglio le ceneri di Arnaldo Gesmundo, 89 anni, scomparso lo scorso 19 aprile a causa di una infezione. Noto alle cronache come Jess il bandito, Gesmundo è stato uno dei sette protagonisti della famosa rapina di via Osoppo, l’assalto a un furgone portavalori nel 1958. Nato e cresciuto in via Padova, Gesmundo aveva espresso il desiderio di questo rito funebre, da svolgersi proprio nella sua zona. Così, ieri un corteo di una quindicina di persone, guidato dalla moglie Apollonia, si è mosso lungo il canale, da piazza Costantino fino in via Idro.
Un piccolo corteo funebre, insolito e informale, ha accompagnato ieri mattina per alcune centinaia di metri lungo la Martesana, a Crescenzago, da piazza Costantino all’inizio di via Idro, le ceneri di Arnaldo Gesmundo, prima che venissero disperse nel Naviglio. Gesmundo, 89 anni (il 28 maggio scorso ne avrebbe compiuti 90), scomparso domenica 19 aprile per un’infezione che nulla c’entrava con il Covid-19, aveva espresso questa volontà a sua moglie Apollonia. E così è stato.
Noto come Jess il bandito, Arnaldo Gesmundo è stato uno dei protagonisti della famosa rapina di via Osoppo del 1958, detta «la rapina del secolo», l’assalto a un furgone portavalori entrato nella storia della città, e anche d’Italia, che suscitò persino ammirazione popolare, intercettata da Indro Montanelli con un articolo sul Corriere. Non fu sparato un colpo, quel giorno, quando i banditi, i «sette uomini d’oro» — come poi furono soprannominati — bloccarono il furgone e portarono via 614 milioni di lire tra titoli e contanti (ma sulla cifra non c’è una versione unanime) e vennero poi rintracciati e catturati a causa del ritrovamento nell’Olona delle tute blu da operaio (con targhetta che indicava la provenienza) usate per la rapina. Gesmundo non ha mai sparato un colpo, non solo in via Osoppo, ma durante tutta la sua «carriera» nella malavita, cominciata da ragazzo, che gli è costata ventitré anni di carcere in nove istituti penali diversi.
Un bandito all’antica, cresciuto in via Padova nel secondo Dopoguerra con i codici della vecchia «ligera», la malavita «leggera», lontanissima dalle imprese sanguinarie dei decenni seguenti, a partire da quelle delle bande
Cavallero e Vallanzasca.«Ho vissuto la mia fanciullezza in una via famigerata — ricordava Gesmundo —, via Beretta, che ora si chiama via Arquà, dove nelle osterie si riunivano noti malavitosi e dove spesso piombava la polizia per arrestare qualcuno».
Poi, un giorno, finì anche lui nella schiera di quelli arrestati, condotti in questura e dopo in «collegio», come Jess chiamava la prigione. Tutto, per Gesmundo, è cominciato in via Padova, in un appartamento di due stanze al piano terra di una casa di ringhiera, dove da bambino abitava con i genitori e due sorelle. E tutto è finito in via Padova, lungo la Martesana, accompagnato dall’affetto di alcuni amici e di sua moglie Apollonia, sempre accanto a lui, anche nei momenti più difficili. «Arnaldo ha scontato tutto quello che doveva ed era consapevole di avere commesso errori — ha raccontato ieri -—. Da moltissimo tempo l’immagine del bandito non gli apparteneva più. Vivevamo in simbiosi. Ciò che mi manca di più è la sua gentilezza».
L’ultimo saluto ad Arnaldo Gesmundo si è svolto con un rito che sembra appartenere ad altri tempi, anzi, fuori dal tempo: una quindicina di persone su uno scivolo digradante nel canale che a turno disperdono dall’urna un poco di cenere nel Naviglio. Niente abbracci, tutti con la mascherina, gli sguardi si incrociano tra poche parole. Alcuni passanti, a piedi o in bicicletta, si fermano incuriositi per cercare di capire che cosa stia succedendo lungo questa ansa della Martesana, ai confini di Milano, di fronte a un’antica trattoria, sotto le fronde di un gelso. Mentre la cenere lascia una lunga scia chiara nell’acqua che scorre verso la città.