E la pioggia accese il Boss
Il live di Springsteen a San Siro 17 anni fa
Il temporale d’estate è sempre una bella cosa. Però nella lunga e implacabile storia di serate afose milanesi, nessuno può mettere in discussione che il diluvio apocalittico del 28 giugno del 2003 resterà il più bello. Bruce Springsteen attera sul suo luogo del delitto preferito, il prato di San Siro, sulle note amate di Ennio Morricone. Davanti si ritrova il solito catino di 65 mila persone, lì a cuocersi a fuoco lento da diverse ore in un assembramento, pure al terzo anello, che oggi sembra quasi preistoria. Li accoglie con una frase che molti artisti regalano spesso per pura ruffianaggine. Invece Springsteen lo pensa davvero: «Amici italiani, voi siete pazzi. È sempre bello tornare qui, perché siamo cresciuti insieme». E lo dice pensando soprattutto a quella volta in un’altra calda serata di giugno, nel 1985, quando la storia d’amore con San Siro gettò le basi. In uno di quei concerti che le nuove, ma anche le medie generazioni, invidiano da sempre ai più grandi. Però stavolta sentono di aver messo nel proprio bottino un concerto almeno quasi epocale come quello.
Il 28 giugno del 2003 quel catino si riempirà d’acqua in uno dei (tanti) concerti memorabili che la storia milanese di Springsteen possa mettere a curriculum. Più o meno a metà scaletta, con il pubblico cotto dal sole e dai cori inizia a piovere. Non due gocce per sbaglio: una cascata d’acqua. E sembra una benedizione, dato che Springsteen invece di fermarsi si butta in testa un cappello da cowboy e accelera sotto i colpi dell’E-Street Band. E di quegli stessi 65 mila distesi tra prato e tribune non si scansa nessuno. Sono più o meno le dieci e mezza e nel momento in cui tanti altri avrebbero salutato rintanandosi in camerino, Bruce devia la scaletta. Attacca come fosse una preghiera dal cielo una vecchia canzone dei Creedence Clearwater Revival: «Who’ll Stop the Rain?». Lo stadio non canta, grida. Di colpo farebbe quasi freddo, ma non se ne accorge nessuno. Abbracciati sotto la pioggia. E come nei miracoli il cielo si apre e la festa continua.
Il Boss tira giù una delle ciambelle più riuscite di sempre. Condisce la scaletta con qualche perla rara come «Growin’ Up» o «Follow the Dream», mentre il pubblico è quasi tutto a torso nudo perché le magliette le ha strizzate e appese sulla balaustra. È anche per questo che il mondo si divide tra chi Springsteen non lo conosce e chi lo ama. Non è solo una questione musicale. Si può andare a un suo concerto senza conoscere una canzone e tornare a casa come usciti da un master alla Columbia. Perché se il rock è una cosa seria, Bruce lo sa fare e sembra che in tanti ogni volta abbiano bisogno che arrivi lui ad attaccare la spina per credere in qualcosa di diverso dall’ordinario. Quello che lo stesso Springsteen considera a tutt’oggi uno dei suoi tre concerti più belli di sempre, torna in mente oggi che di anni da quella notte bagnata ne sono passati 17. Mentre la musica live è stata messa in freezer per far passare le paure di un’epidemia che ha messo in ginocchio la parte più musicale del mondo intero. Non si suona al pub, figuriamoci negli stadi. E a voler essere del tutto nostalgici, forse questo stesso stadio non troppo tardi verrà demolito perché superato dalla storia. Per questo quella notte di tre ore di sinfonia rock più che un ricordo diventa un obiettivo. Perché non può piovere per sempre.