Le social street rilanciate dall’effetto del lockdown
Servizi, consigli e mappa dei bisogni: il lockdown ha intensificato le reti virtuali e reali nei quartieri della città
Questione di utilità. Anche per questo, durante il blocco generale per l’emergenza sanitaria, le social street, ad esempio, si sono rafforzate, come conferma una ricerca dell’Università cattolica. La spesa solidale a domicilio, le medicine agli anziani, gli accordi con i negozi, le informazioni sui servizi nel quartiere o sugli affitti di spazi per chi doveva isolarsi: «Da lì si è partiti per estendere la relazione anche allo svago».
«Coltivo il rapporto con te, perché mi servi». La frase, in questi termini, risulta sgradevole. Eppure, secondo uno studio dell’università Cattolica, è realistica e non per forza negativa.
Il buon vicinato si traduce soprattutto in pragmatico utilitarismo, è un dato di fatto. Durante il lockdown le social street, ad esempio, si sono rafforzate moltissimo. Ed è la dimensione del mutuo aiuto che nel momento del bisogno è emersa in tutta la sua forza e ha caratterizzato l’impegno di queste reti. La spesa solidale a domicilio, le medicine agli anziani, gli accordi con i negozi, le informazioni sui servizi nel quartiere o sugli affitti di spazi per chi doveva isolarsi dalla famiglia per ragioni sanitarie o lavorative. «Da lì si è partiti per estendere la relazione anche allo svago, ad esempio con le iniziative coordinate al balcone in tempo di reclusione forzata», considera la sociologa Cristina Pasqualini, che ha condotto la ricerca. Ci sono casi eclatanti come la social street di San Gottardo, nata nel 2013: conta 10 mila iscritti e a marzo-aprile ha registrato un più 250 per cento dei post e commenti pubblicati con circa 30 mila interazioni al giorno, racconta il fondatore Fabio Calarco, 41 anni, ingegnere. Oppure quella di Nolo, più recente (creata nel 2016): «Magari si calmassero… in media più di 50 post al giorno, dall’uccellino trovato dalla nonna e consegnato all’Enpa alla raccolta di viveri per due genitori che hanno perso l’impiego», annuisce Daniele Dodaro, 33 anni, esperto di ricerche di mercato.
Gli studiosi ora discutono sulla natura dell’avvicinamento ulteriore dovuto al lockdown (e quindi al bisogno): è una conquista duratura, oppure no? «Uno dei vantaggi di queste reti è la flessibilità. Sono punto di riferimento quando servono e si ritirano se non c’è bisogno. Il loro funzionamento si misura sulla capacità di costruire un capitale di fiducia nelle relazioni con l’altro, in particolare il vicino», spiega Fabio Introini, anche lui docente in Cattolica
e nell’Osservatorio sulle social street, l’unico in Italia.
Già prima del lockdown, il 74 per cento degli «streeter» affermava ad esempio di consultare il gruppo Facebook dei residenti almeno una volta ogni settimana. Con il lockdown le visite ai portali sono diventate quotidiane. E il 63 per cento afferma che quelle incursioni sul portale durante l’emergenza sanitaria ha fatto la differenza in positivo. Le social street hanno organizzato eventi di convivialità a distanza e iniziative solidali (73 per cento). E non si parla solo di via Maiocchi, via Morgagni e parco Solari, quelle con un maggior numero di iscritti: tutte, sul territorio, si sono attivate. Ci sono state anche nuove conoscenze (per due «streeter» su dieci, dice il sondaggio) ed è aumentato il senso di appartenenza alla via di residenza (30 per cento).
Adesso, a due mesi dal lockdown, cosa succede? Le prime risposte date ai ricercatori fanno pensare. Quasi il 40 per cento delle social street ha smesso di organizzare i servizi messi in campo nell’emergenza, ad esempio. E il 65 per cento dei residenti dice di non avere più «bisogno» dei vicini. «L’organizzazione flessibile si adatta — non si stupisce Pasqualini —. Ma qualcosa resta, anche di quello che avevamo guadagnato in quei mesi. I nuovi contatti (virtuali) instaurati durante il lockdown si trasformano in legami (reali). Il 30 per cento dice che parla con i vicini almeno una volta alla settimana e il 10 per cento, quotidianamente».