Boss e pietas, la Milano di De Simone
Renato Olivieri, i cui meriti letterari non hanno forse ricevuto adeguato riconoscimento, l’avrebbe volentieri ospitato in uno dei suoi romanzi, amante e conoscitore com’era della vera Milano e dei veri milanesi: non si limitava alla burocrazia delle letture delle carte ma stava dentro i colori e gli odori, la vanità e gli angoli miserabili, i vizi e i dolori della commedia umana. Se Olivieri doveva raccontare di un quartiere, si metteva giorni in appostamento, scattava fotografie, tornava a casa, disponeva le immagini, osservava, infine ricostruiva. L’aderenza al reale. E sempre la capacità — la costante — di vestire i suoi personaggi della pietas verso le vittime come verso i carnefici, abbattendo la distanza, quasi fisiologica, che si crea tra l’investigatore e l’indagato, tra l’investigatore e il testimone, tra l’investigatore a contatto col peggio dell’essere umano e l’impossibilità di non esserne intaccato a livello emozionale, ma anzi la curiosità di voler scoprire le origini. Dopo vent’anni in città e la nomina a primo dirigente di polizia, Angelo De Simone è stato trasferito a Novara a comandare la divisione anticrimine. Se De Simone, romano 49enne, compare in questo spazio, non è tanto – non soltanto – per i meriti professionali, dalle inchieste sui padrini della droga a Quarto Oggiaro alla capacità di aggredire le sacche d’illegalità delle periferie dove ha guidato commissariati (da ultimo Greco-Turro), quanto per il suo modello operativo in linea con le necessità e la storia di Milano. Ovvero la capacità di mediare, tessere alleanze con associazioni e istituzioni, ascoltare i cittadini. Tutte cose che sembrano scontate e non lo sono mai. Senza qui ricordare le varie minacce ricevute (fan parte del lavoro quand’è fatto bene), c’è l’auspicio che De Simone ritorni in città, quella città che l’ha visto in prima fila nel governo dell’ordine pubblico. Di nuovo, con la convinzione di non aumentare le contrapposizioni ma di accorciare le barriere. Con la pazienza. Che è e resta la prima qualità dell’arte d’indagare.