«Ogni sera vedo la città che si rialza»
L’étoile: vorrei insegnare, ma da sola non paghi un teatro
Una città che prova a rimettersi in piedi. Quella che vedeva dalla finestra nelle sere del lockdown. Carla Fracci, 84 anni il prossimo mese, si sta preparando a lasciare la sua casa in Brera per raggiungere gli amici sul lago. L’étoile racconta la sua Milano, nella prima puntata di una serie di ritratti di grandi personaggi di questa città. «Vorrei insegnare, ma da sola non paghi un teatro», racconta. Fracci torna anche sull’immagine della (sua) Scala per mesi chiusa e ora blindata: «La Scala è casa mia, mi piace ritornare, mi piace quanto è affettuoso il suo pubblico», dice.
Annullato, annullato, annullato: il botteghino on line del Teatro alla Scala cancella, una dopo l’altra, le speranze di tornare a vedere presto Il lago dei Cigni, Un ballo in maschera o La Traviata, in calendario a luglio prima che il Covid 19 facesse saltare oltre metà della stagione lirica. Ci vuole ancora un po’ di pazienza, ci vuole tempo, ci vuole fiducia per rivedere un’Odette e un Sigfrido volteggiare sullo storico palco.
«Milano è sempre stata una città molto attiva, si riprenderà. Si sta già riprendendo. Lo vedo ogni sera dalla finestra, quando i giardinetti qui sotto si riempiono di ragazzi vocianti e pieni di voglia di vivere. Ho fiducia perché so cos’è la forza di volontà dei milanesi» rassicura quietamente Carla Fracci, 84 anni il prossimo mese.
Anche la sua reclusione sta per terminare. Si sta preparando a lasciare l’appartamento in zona Brera per raggiungere gli amici sul lago, assieme al marito, il regista Beppe Menegatti. È stata dura questa lunga primavera. Infinita e malinconica. Se è stato un colpo per i milanesi figurarsi per lei vedere le immagini di piazza della Scala con i battenti chiusi e le luci spente nei mesi claustrofobici del lockdown, quando la sofferenza dei teatri non era certo in cima alle preoccupazioni dei governanti. E quasi certamente non lo è nemmeno ora.
«Sono cresciuta lì — informa lei, come se non lo sapesse il mondo intero —. E lì è rimasto il mio cuore. La Scala è casa mia, mi piace ritornare, mi piace quanto è affettuoso il suo pubblico. È sempre un grande teatro. Poi bisogna vedere…».
Bisogna vedere che cosa?
«L’arte, la musica, la danza — insegue il filo dei suoi pensieri — sono il conforto di persone semplici che, con un po’ di fortuna e qualche conoscenza, riescono talvolta a infilarsi di straforo anche alla Scala. Ci è mancato tanto il teatro. Ma so che il lavoro sta riprendendo con artisti importanti, anche se con meno personale».
Sì, ma a cosa si riferiva con «poi bisogna vedere»?
«Alla politica. Potrebbe darci fiducia, diventare un punto di riferimento. È l’unione che fa la forza. Non le rivalità, non la superficialità. Mi riferisco a una grande compagnia italiana di ballo. Non l’abbiamo, perché il meglio non ha saputo restare unito. I teatri di Bologna, Trieste, Venezia, Torino, Roma hanno perso tutte le loro compagnie di ballo. Firenze ha tolto il suo balletto. E anche Verona, nonostante riempisse l’Arena. Ma perché? Già nel 1975, al Festival di Venezia, con Paolo Bortoluzzi avevamo chiamato i migliori nomi italiani, Elisabetta Terabust, Luciana Savignano, Liliana Cosi, Amedeo Amodio... potevamo essere tutti uniti quella sera. Invece. Che occasione mancata!». Perché lei non ha mai aperto una scuola di ballo?
«Me lo chiedono in tanti: se non lo fai tu, mi dicono, chi vuoi che lo faccia? Già, rispondo sempre, e i soldi chi me li dà? Da sola non posso pagare un teatro o una sala».
Davvero a Milano non si trova un imprenditore, uno sponsor? Che fine hanno fatto i mecenati meneghini?
«Non lo so. So che io sono stata la bandiera della danza italiana, che ho un’esperienza riconosciuta dal popolo, da cui ricevo tuttora immense dimostrazioni d’affetto. E so che vorrei tanto lavorare con i giovani. Ancora adesso mi impegnerei a fondo. Potrei dare loro non solamente gambe e piedi, ma anche uno stile. Il fattore stilistico si tramanda oppure si perde; e io ho avuto la fortuna di conoscere grandi maestri. Maestri che ti insegnavano tutto, da come si legge la Divina Commedia a come si tiene la forchetta a tavola. Ce ne sono ancora, ma non ci sono le scuole. Mi chiamano icona e bandiera, sono di qui e sono di là, ma non posso aprire una scuola in un edificio qualsiasi. Che enorme delusione!».
Piano. «Passo a passo», come il titolo della sua autobiografia e come lo slogan del sindaco Beppe Sala: da dove dovrebbe ripartire Milano adesso?
«Dal suo punto di forza, credo: il commercio. Dai sapori delle trattorie tipiche milanesi. Dalla volontà individuale di fare, di non cedere, di riprendere il percorso interrotto. E dalla sua vitalità. Sì, anche dai drink ai tavolini dei bar sui Navigli, dalla voglia di buttarsi alle spalle quel mostriciattolo. Ma senza abbassare troppo presto la guardia, perché il coronavirus è ancora in giro».
Lei come lo ha affrontato in questi mesi? «Senza mai uscire di casa. Né io né Beppe. Luisa (l’assistente, n.d.r.) ce lo ha proibito. Faceva la spesa per noi e ci lasciava le provviste davanti alla porta. Non entrava nessuno, siamo stati sempre soli. Mio marito è un bravo cuoco, ma anche io ho cucinato e ho tenuto pulita la casa. Oltre ai miei allenamento quotidiani alla sbarra, per tenermi in esercizio facevo le scale condominiali: su e giù, su e giù». Stress da confinamento?
«Non l’ho sentito. Chissà, forse per Milano, sovraeccitata dall’ansia di potere e denaro, era arrivato il momento di fermarsi».
Da maestra del rigore e della precisione, ha apprezzato l’autodisciplina milanese?
«Sì, e bisogna continuare così. Le mascherine, le precauzioni continuano a essere importanti. Bisogna ricordarlo soprattutto ai più giovani: se non si sta alle regole, non si riparte. Il pericolo non è finito. E a patirne di più le conseguenze sono gli artisti».
Molti teatri sono chiusi, ma riprendono gli spettacoli all’aperto.
«Ho sempre lavorato nelle piazze. Ho portato la danza ovunque, anche sotto i tendoni, non solo nei grandi teatri di New York, Parigi, Londra, Mosca, Sydney o Città del Capo. So che cosa vuole dire il lavoro sopra ogni cosa, così come il milanese sa che cosa significa la volontà di progredire».
Un esempio?
«Mio padre, tranviere, mi raccontava come, al ritorno dalla guerra in Russia, avesse cominciato da semplice bigliettaio, fino a diventare uno dei migliori manovratori di Milano e a compiti di responsabilità, come redigere gli orari dei tram. Abitavamo nelle case popolari di via Tommei. Avevamo due stanze in quattro. Per riuscire ad avere una camera in più chiesi aiuto a un pompiere della Scala che conosceva il sindaco. Aldo Aniasi, mi pare. Così ci trasferimmo in via Forze Armate 83. Ma il mio cuore è rimasto nella prima casa in cui sono andata a vivere con Beppe, in via Santo Spirito. Ce l’affittarono grazie alle referenze fornite per noi da Wally Toscanini ed Eleonora de Sabata».
Che cosa spera, adesso, per la sua città Carla Fracci?
«Che si riesca a mantenere la nostra Milano com’è, anche quella più nascosta. Cambiano le generazioni e la mentalità, d’accordo, ma per me è una follia distruggere le statue, è un gesto brutale e incivile. Perché demolire? Perché cancellare le opere di architetti anche famosi? Conserviamo i monumenti e i palazzi. Sono la nostra storia».
Vitalità Per tenermi in esercizio sono andata su e giù per le scale: ora Milano deve ripartire dalla sua vitalità, anche dagli aperitivi Certo va tenuta alta la guardia Sfregiare le statue? È una follia