Corriere della Sera (Milano)

«Riunirò i rapper italiani»

Don Joe (Club Dogo) racconta il suo nuovo disco

- di Raffaella Oliva

Spesso si descrive il rap come la musica delle nuove generazion­i: giusto, ma il successo di questo genere non è stato certo improvviso. Se in tempi recenti la trap ha dato vita a una scena florida, non si può dimenticar­e ciò che c’è stato prima: negli anni 90 Neffa, Frankie hi-nrg, OTR, Articolo 31, Sottotono, Colle der Fomento, Assalti Frontali; nel decennio successivo nomi tuttora in auge come Fabri Fibra e Marracash e un terzetto fermo da tempo, i Club Dogo, i cui componenti stanno, però, continuand­o a macinare canzoni. In radio si sentono non solo quelle dei rapper Gué Pequeno e Jake La Furia, ma anche i singoli del produttore Don Joe: suo il beat di «Algoritmo», di Willie Peyote con Shaggy, e di «Spaccato», con Madame e Dani Faiv.

«Li riunirò nel mio prossimo album, una raccolta dei miei pezzi più recenti», spiega il 45enne milanese, al secolo Luigi Florio, titolare dell’etichetta Dogozilla Empire. «Il lavoro di noi producer e beatmaker è difficile da promuovere, ma forse questo è il nostro momento: anziché ascoltare i dischi per intero, i ragazzi creano playlist con le canzoni preferite, un gioco perfetto per chi firma le strumental­i dei brani come me. Mi spiace solo che con ascolti così frammentat­i difficilme­nte si costruiran­no un bagaglio culturale e una personalit­à». Di mezzo c’è la diffusione delle piattaform­e digitali che Don Joe — come svela nell’auche

Producer tobiografi­a «Il tocco di Mida» dello scorso ottobre — ha seguito passo dopo passo, sullo sfondo sempre la sua Milano.

«Adesso i brani si realizzano al computer e online circola tutta la musica possibile, una volta era tutto più romantico», dice. «Trascorrev­o ore da Metropolis Dischi in Chinatown. Ho sempre basato il mio lavoro su un’approfondi­ta ricerca, in gergo “digging”, di vecchi pezzi da campionare e modernizza­re». Soul, funk, techno: nel corso della sua carriera Don Joe si è divertito a infilare nell’hip hop confeziona­to con i Club Dogo o per altri artisti (da Emis Killa a Max Pezzali ai già citati Marra e Fibra) ispirazion­i sonore «ancon un valore affettivo». Sogno di usare qualcosa di Battisti, ma avere i diritti è quasi impossibil­e», afferma il ragioniere prestato al rap, che ha scelto il suo nome d’arte in omaggio a «Don Giovanni», album battistian­o del 1986. Dell’hip hop meneghino ha vissuto più fasi: i ritrovi al «muretto» di Largo Corsia dei Servi; le serate al Soul To Soul, al Bataclan e all’Acqua Potabile; il Move Out, negozio di streetwear e dischi in via Anfossi, aperto dal 2005 al 2010. «Gestivo la sezione musicale, mi piaceva, poi il web ha preso il sopravvent­o». Le polemiche sui Club Dogo sono un ricordo lontano: «Ci hanno accusati di machismo e di promuovere le droghe, ma le nostre sono canzoni da cronisti che raccontano la società». Ora, con il movimento Black Lives Matter, a essere messo in discussion­e è l’uso della parola «urban», solitament­e utilizzata per indicare i diversi stili della musica afroameric­ana e da alcuni ritenuta denigrator­ia. «Non è un termine razzista — sostiene Don Joe —, abbiamo cose più importanti di cui preoccupar­ci».

Il disco

«Riunirò molti artisti e ispirazion­i sonore da Willie Peyote a Madame e Dani Faiv»

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Don Joe, 45 anni. Il suo nome è ispirato a un album di Lucio Battisti

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