Esecuzione in via Varsavia L’allarme del quartiere: «Paura a uscire di casa»
Delitto dell’Ortomercato, rischio vendetta e appelli dei residenti
Un omicidio in due atti. A distanza di un’ora. Primo: intorno alle 2 di venerdì notte in via Varsavia, di fronte all’ingresso dell’Ortomercato, una Seat Ibiza nera s’accosta a un Ducato argentato. Dentro vivono Jhonny Sulejmanovic, 18 anni, bosniaco ma nato a Torino e con piccoli precedenti di polizia, insieme alla compagna «incinta al quarto mese». Scendono in cinque a volto scoperto. Dicono a Jhonny di andare a bere una birra. Un incontro chiarificatore. In caso contrario, sarebbero tornati. Così è. Secondo atto: alle 3.15 la macchina che s’avvicina al van è grigia. Il 18enne dorme. I killer rompono i vetri con delle mazze, lo trascinano fuori da «casa», lo picchiano. «Sono scappata, sono caduta e quel signore mi correva dietro», racconterà la compagna. Poi i colpi da una pistola calibro 7.65. Almeno sei, di certo tre vanno a segno tra braccio e torace di Jhonny, che muore poco dopo l’arrivo al Policlinico.
La scena, tra testimoni e prime indagini, è scritta. Ad assistere all’esecuzione c’è anche la famiglia della vittima, che vive in altre roulotte parcheggiate lì intorno. Ma una svolta alle indagini potrebbe arrivare presto. Almeno dalle immagini delle telecamere che hanno ripreso la scena e che avrebbero rilevato anche la targa dell’auto dei killer. Ai quali gli agenti della squadra Mobile, guidati da Alfonso Iadevaia, stanno dando la caccia. Anche se dei nomi circolano già tra i familiari della vittima che non fa parte del vicino campo nomadi di via Bonfadini, tutto circondato da carcasse di auto bruciate. «Siamo arrivati da Torino cinque mesi fa», ricorda la sorella di Jhonny. E proprio quel trasferimento potrebbe essere indicativo per far luce sull’episodio. O forse vecchie ruggini, qualche sgarro. Ancora da capire. I parenti di Jhonny, ai primi accorsi in via Varsavia, promettono: «Arrivano in cinquecento da Torino per vendicare Jhonny». E sul commando: «Sono bosniaci come noi. Se non li arresta la polizia, andiamo noi», rincara la mamma sentita in questura con il marito e la compagna di Jhonny, incinta al quarto mese.
Dalle prime ore del mattino, insieme alla polizia, di fronte ai giganteschi cancelli da cui passano tonnellate di frutta e verdura ogni giorno, si ritrovano alcuni residenti. Qualcuno è stato svegliato dagli spari, come una residente che ha visto «un ragazzo a terra, pieno di sangue e delle persone che cercavano di rianimarlo». Non si fa riprendere per paura di essere riconosciuta, ma aggiunge: «Eppure succede di tutto. Ho perfino paura di far bere il cane dalla fontana perché dentro gli zingari ci buttano il detersivo. Ho sempre paura».
Qualcun altro, invece, è ancora all’oscuro dell’accaduto, lo viene a sapere solo entrando nella farmacia che s’affaccia su via Varsavia. Ecco lo stupore. Ma è solo l’inizio. Seguono rabbia e poi rammarico per un quartiere ormai «terra di nessuno», sentenzia Fabio Nespoli, milanese di Corsico, in zona da una decina d’anni. «Questa è la goccia che fa traboccare il vaso — racconta mentre si infila la testa nel cappuccio del piumino per il vento che spinge via i vetri dei finestrini in frantumi e i cartelli della Scientifica che indicano i reperti —. Abbiamo bisogno di aiuto per integrare queste comunità. La città deve curare delle sue periferie».
Poi, conclude la signora che ha assistito all’esecuzione: «Viviamo nel degrado. Vivo qui da una trentina d’anni — sentenzia — ed è sempre peggio».