Morte di Brunetti, le nuove accuse contro i 4 poliziotti
Morte per il pestaggio, dibattimento d’appello: in Assise sbagliati anche i nomi dei testi
Mercoledì la sentenza sulla morte di Stefano Brunetti, il 43enne morto ad Anzio in seguito all’arresto (2008). Un caso analogo a Cucchi. In I grado assolti i 4 poliziotti: i giudici avevano creduto alla versione della difesa accreditando gesti autolesionistici per spiegare i lividi.
Una milza perforata. Il lavandino di una cella. Una doppia iniezione di sedativo. L’interpretazione di questi tre elementi dopodomani deciderà l’esito al processo di appello per la morte di Stefano Brunetti, vicenda quasi sovrapponibile ai casi Cucchi e Aldrovandi ma assai meno nota.
L’8 settembre 2008 Stefano Brunetti, 43 anni, una vita in bilico fra alcol, solitudine e bravate, viene arrestato con l’accusa di tentato furto al magazzino di un negozio di biancheria per la casa a Nettuno. Ha esagerato con il whisky, il magazzino del negozio è aperto e con lui c’è l’amico Giuseppe Taggi: tre circostanze che gli suggeriscono intraprendenza. Ha sfortuna: il titolare del negozio se ne accorge, scoppia una lite, intervengono gli agenti. Viene arrestato e morirà 24 ore dopo a causa di un’emorragia interna. Il primo grado in Corte d’Assise ha assolto i poliziotti del commissariato di Anzio, Salvatore Lupoli e Alessio Sparacini, che, per l’accusa, lo pestarono a morte in seguito all’arresto, e altri due agenti accusati di falso che tentarono di coprirli. Ora, per Lupoli e Sparacini la procura generale ha chiesto 10 anni di carcere.
Punto primo: la milza. Secondo l’autopsia, era quasi esplosa, perforata come per un pestaggio. L’ipotesi combacia con il resto. Brunetti aveva tumefazioni alle braccia e al torace. Due costole rotte. Cinque persone, fra medici e detenuti, testimoniarono che l’uomo aveva indicato «le guardie al commissariato» come i responsabili delle botte. Il collegio di primo grado trascurerà tutti gli elementi. A cominciare dalla milza. I giudici fanno propria la tesi difensiva: Brunetti soffriva di cirrosi epatica, la milza era gonfia e vulnerabile, potrebbe essersi perforata per via delle costole rotte. Quanto a queste, il 43enne si sarebbe spinto a gesti autolesionistici. Tanto più - si convince il collegio - che alcuni agenti hanno testimoniato di aver visto un lavandino divelto nella cella di sicurezza in cui si trovava.
Quelle testimonianze erano false, sostiene ora l’accusa, che contrattacca: dal loro punto di osservazione i poliziotti non potevano vedere il lavandino, in più l’ispezione successiva dirà che non era divelto ma solo che era smontato «il miscelatore dell’acqua». Quanto all’autolesionismo, il pg spiega: «Solo gettandosi a corpo morto con una rincorsa laterale e un braccio alzato contro il muro».
Accuse anche di sciatteria nei confronti del precedente collegio nelle cui motivazioni si leggono storpiature nei nomi: la teste Amelia Marziali diventa «Amalia Manzoni». Infine i giudici interpretano a beneficio dei poliziotti il fatto che Brunetti dormì senza accusare dolori. Ma la somministrazione di due fiale di Diazepam - un potente sedativo, come osserva la procura generale -, non fu piuttosto quello il motivo? Sarà la sentenza d’appello, ora, a decidere.