Beirut e l’arte: una mostra in cento opere
Cento opere, di 36 artisti diversi per stile e generazione, scelte con l’obiettivo di raccontare l’effervescenza creativa, ma anche la problematicità, di una capitale del mondo da anni al centro dello scenario contemporaneo: Beirut. Questo l’intento della mostra inaugurata ieri al Maxxi Home Beirut Sounding the
Neighbors. Una collettiva frutto di due anni di lavoro sul campo — condotto dai curatori Hou Hanru e Giulia Ferracci — e in grado di restituire, nel suo insieme, il dinamismo di una realtà tanto complessa quanto affascinante.
Quattro le sezioni in cui è suddivisa l’esposizione: Home for memory; Home for everyone?; Home for remapping e Home for joy. Minimo comun denominatore, l’idea portante della mostra, che nella caleidoscopica città libanese individua un luogo speciale dove è centrale il tema dell’appartenenza: come rendere questa città, dove ogni singolo ha un diverso senso di identità, una
casa per tutti? La risposta nelle opere, ciascuna delle quali accompagnata da un testo-didascalia che ne spiega senso e significati. Opere nuove per una mostra in Europa — non tanto nei mezzi espressivi prediletti, che sono quelli dell’installazione, del video, della fotografia in primis, seguiti da disegno, pittura ecc — quanto nei contenuti. Tra gli interventi, tutti interessanti, la toccante immagine del danzatore Alexandre Pauliketvitch, che di fronte alla telecamera di Sirine Fattouh danza come una sorta di araba fenice fra le macerie di un villaggio distrutto nel video Entre les ruines, del 2014. Ha invece il piglio del reportage la serie fotografica scattata nel 2002 da Paola Yacoub durante l’occupazione siriana. Otto immagini racchiuse nel titolo Le Fleurs de
Damas: «Uomini e talvolta bambini — ha raccontato Stefan Tarnowski a proposito di questo lavoro dell’artista — trasportano fasci di rose rosse lungo le strade di Beirut, nel quartiere di Achrafieh. Nessuno parla con loro né acquista fiori. Malgrado ciò, ogni mat- tina ritornano sempre nello stesso luogo... In realtà tutti temono questi “fiorai” perché c’è il forte sospetto che siano membri dei servizi siriani».
Dietro ogni lavoro, una testimonianza o una storia da raccontare, non di rado sospesa sul crinale sottile tra il mondo privato dell’artista e una dimensione più pubblica e legata a tematiche generali. Al primo genere appartiene ad esempio il colorato intervento di Mazen Kerbaj, un diario annuale con ciascun giorno raccontato da un disegno, «un libro sullo scorrere del tempo»; al secondo appartiene invece l’opera di Mona Hatoum (Measures of Distance, 1988), tra i nomi più noti a livello internazionale, nel quale l’artista riflette sul proprio esilio a Londra durante la guerra civile libanese e sul suo rapporto con la madre.