Carrozzeria Orfeo, il vizio di vivere (meglio)
Al Piccolo Eliseo «Cous Cous Klan», ambientato in un futuro in cui l’acqua è stata privatizzata
Il teatro di Carrozzeria Orfeo somiglia a un vizio a cui non si riesce proprio a rinunciare, mai. Pur sapendo che fa male, malissimo. Perché si crede che una dose di piacere, anche a costo di qualche pegno, aiuti comunque a vivere meglio.
Nell’ultimo spettacolo della compagnia di Gabriele Di Luca, «Cous Cous Klan» in scena da stasera al Piccolo Eliseo, il vizio è ancora una volta quello di scendere negli inferni quotidiani dei perdenti, degli esclusi, dei diversi, intercettati ai margini un’umanità socialmente instabile, carica di nevrosi e debolezze. Un’operazione affatto indolore (già portata a segno nei precedenti lavori «Thanks for vasellina» e «Animali da bar»), perché il pubblico capisce subito che la finzione è usata come edulcorante. Che l’ambientazione surreale e distopica della pièce – un futuro in cui l’acqua è stata privatizzata, con fiumi, laghi e sorgenti del mondo sorvegliati da guardie governative armate, mentre la forbice sociale tra ricchi e poveri si allarga con le città trasformate in sconfinate favelas e i quartieri benestanti recintati sotto sicurezza – in fondo non si allontana molto dalla realtà. O, ancora peggio, è uno scenario possibile.
Eppure si ride. «Moltissimo, almeno cento volte», garantisce Di Luca, autore e regista di «Cous Cous Klan» insieme a Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi. «Sono risate amare, ma non per questo meno divertenti. Portiamo avanti da anni un lavoro di ricerca sulla mescolanza dei generi, per fondere ironia e tragicità, divertimento e dramma, in una continua escursione fra reale e assurdo, fra sublime e banale – spiega - con uno stile esasperato capace di generare, al contrario, un provocatorio realismo: spassoso ma mai gratuito e fine a se stesso, muovendoci sul fragile confine dove tutto può all’improvviso risolversi o precipitare». Eccolo, dunque, quel vizio dolente e pregiato di saper ridere del tragico che è dietro l’angolo.
Si alza il sipario e ci si ritrova in un parcheggio abbandona- to e degradato alle spalle di un cimitero, tra carcasse di auto, roulotte e accampamenti di fortuna, dove (soprav)vive una piccola comunità di sconfitti. C’è Caio, ex prete nichilista e depresso. Il fratello Achille, sordomuto e omosessuale. La sorella Olga, non più giovane, né magra, senza un occhio, che rincorre la maternità insieme al marito Mezzaluna, un musulmano moderato che contrabbanda rifiuti tossici. Infine Aldo, un borghese in disgrazia che si è ritrovato a dormire per strada, e Nina: il più grande dei loro problemi è la chiave per il loro riscatto sociale. Di Luca li definisce «simpatici falliti», una specie di branco dove ci si azzanna per arrivare salvi all’indomani. «Non ce la fanno ma non si arrendono, sono cinici ma sentimentali. Li ho costruiti tenendo a mente Nietzsche e Jung – conclude – perché ci facciano ridere con intelligenza. Perché il teatro che riempie le sale sia pop e intellettuale allo stesso tempo. Ci aiuta a vivere meglio».