Colapesce e la politica «Il mio canto è libero»
Venerdì all’Auditorium il concerto dell’artista siciliano
Le persone si identificano nei testi che scrivo, dal valore universale
Il mio nome cita una leggenda d’età federiciana che ascoltavo da piccolo
Colapesce l’«Infedele» — è il titolo del suo album — sarà venerdì all’Auditorium con la sua band per un viaggio che ricalca da vicino questo disco, e il precedente Egomostro. Nel panorama del cantautorato italiano è fra i più innovativi e originali. Voce che ricorda Battisti, canzoni mai superficiali, anche quando leggere. Echi dal passato: «Ascolto tanta musica italiana e americana: Ivan Graziani, Enzo Carella, Piero Ciampi, Luigi Tenco. E Neil Young, Bob Dylan.
Infedele testimonia i miei gusti trasversali toccando dal fado, all’elettronica, al cantautorato rock americano. Il mio lavoro più pop e immediato».
L’amore, la religione, questi anni «sospesi»: «Tocco temi diversi, senza mai esagerare con i riferimenti politici perché la canzone deve mantenersi libera da giudizi e sentenze. Il maestro De André ha insegnato come sia possibile dare contorni precisi alla realtà, senza schierarsi. A influenzare noi tutti è la dittatura digitale, che ancora non riusciamo bene a gestire. Fretta e controllo totale investono anche i rapporti fra uomo e donna. Viviamo l’amore in maniera compressa. Così per l’artista: lo streaming è un suicidio che accorcia la vita del prodotto. Un risvolto positivo c’è: in 24 ore si può produrre e mettere online un brano. Il processo è democratico. Ma va meglio definito».
Dell’ironia si serve, senza calcare la mano: «Smorza il peso di alcuni argomenti e aiuta a far riflettere. Con l’illustratore e musicista Alessandro Baronciani abbiamo proposto un concerto disegnato,
La distanza, che prendendo spunto dal film L’avventura di Antonioni raccontava il viaggio con due ragazze per la Sicilia, fra riflessioni sulla solitudine e sull’amore». Colapesce ha anche creato partiture per accompagnare le immagini di Vittorio De Seta, primo documentarista italiano: Isola di fuoco è stato presentato due anni fa al Romaeropa Festival.
Un percorso alternativo di per sé, e antitetico ai talent, che giudica così: «Un fenomeno solo televisivo, e non artistico. I ragazzi sono solamente interpreti. La musica d’autore è ben diversa dall’eseguire cover con una bella voce». Ricorda: «A nove anni ho preso in mano la chitarra e non l’ho più lasciata. Mentre ero all’università a Catania, Lettere con indirizzo Comunicazione, suonavo in diverse formazioni. Dopo la laurea triennale ho fatto la mia scelta di vita, la musica per sempre: ho vinto il premio Tenco, ed eseguito centinaia di concerti».
Perché quel nome? «Colapesce è una leggenda della Sicilia federiciana di cui esistono varie versioni, una è che sia un personaggio leggendario che si sacrifica per reggere l’isola mentre sta per sprofondare inghiottita dal mare. Mi veniva raccontata da piccolo». A voler vedere un simbolo, lui che passando per una lunga gavetta arriva al successo: «Una strada molto dura, la selezione è più alta che in tv. Con me ha funzionato il passaparola. Le persone si identificano nei testi che scrivo, dal valore universale. Da un decennio non mi fermo, seguito da un pubblico non sterminato ma fedele, che segue ogni mio passo».