Marchioni & Montanari
I due attori protagonisti di «Uno zio Vanja», tratto da Checov e ambientato in un’Italia post terremoto
Cechov su un cumulo di macerie, quelle del teatro di un paese colpito dal terremoto in Italia. È Uno zia Vanja messo in scena da Vinicio Marchioni, protagonista con Francesco Montanari, e regista dello spettacolo, da stasera all’Ambra Jovinelli.
Spiega: «La mia direzione più difficile, sette attori in scena oltre me. Sono due anni che studio Cechov, insieme con mia moglie Milena Mancini: abbiamo riletto le lettere, i racconti, la biografia, il teatro. Per una specie di timore reverenziale verso l’autore abbiamo affidato l’adattamento a Letizia Russo, introducendo quell’elemento del teatro di provincia distrutto dal terremoto. Un simbolo del fallimento: se le case crollano è anche perché in molti casi si usano materiali scadenti. Lo stesso smarrimento che avvertiva il drammaturgo rispetto alla borghesia di fine 800».
Precisa Marchioni: «L’attualizzazione riguarda l’ambientazione, non il copione, fedele alla scrittura di Cechov. Nelle pagine del russo sono contenute, a ben vedere, l’inerzia e la pigrizia dell’italiano medio inchiodato a un sistema, che si gira dall’altra parte, e ha una coscienza civile minima. Macchine in doppia fila, bloccate davanti al portone della scuola».
C’è tutto questo nel personaggio di zio Vanja? «Sì, lui ne è l’emblema. Dà sempre la colpa agli altri, non è mai autocritico, con estrema facilità emette giudizi. Un uomo incapace di raddrizzare la sua vita, dopo aver visto crollare sogni, progetti, illusioni. Eppure rimane in Cechov uno sguardo pieno di comprensione. Ora sui social basta un
like o una critica a rovinare in dieci secondi la vita delle persone. Cechov no: lui si mette in ascolto, si sforza di capire le motivazioni. Un punto di vista che cerco di conservare nella regia». Prosegue: «Non so se vi sia una speranza, ma il monito è potente, a non farsi prendere dalla passività e riprendere la vita in mano».
Come compagno di strada ha scelto un grande amico, Francesco Montanari. Che ricorda: «Con Vinicio abbiamo cominciato a stimarci sul set di Romanzo Criminale, dov’ero il Libanese, e lui il Freddo. Abbiamo la stessa concezione del mestiere dell’attore: non creazione, ma azione. Al posto della finzione sta l’umanità, e la voglia di mettere in gioco se stessi e le proprie convinzioni. Credo Vinicio abbia scelto una squadra di persone con cui è in sintonia proprio per lavorare meglio».
Il suo ruolo è quello di Astrov, il medico e filosofo che prova una scissione profonda. Spiega Montanari: «Cura l’umanità, ma non la ama, perché, lui che pianta boschi, sa che gli uomini continueranno a rovinare il pianeta. Un personaggio modernissimo, e vicino a noi che abbiamo raggiunto l’età dei primi bilanci». Riflette: «Non è un caso che la speranza sia affidata a un personaggio giovane, Sonia-Nina Torresi. E non è un caso che a incarnarla sia una donna». Due attori giovani per un grande classico, l’idea è di conquistare nuovo pubblico? «Il mio Astrov è un medico di pronto intervento in una zona terremotata, e credo che il rifermento alla storia recente possa agevolare l’avvicinamento da parte di un pubblico di giovani. Comunichiamo in maniera diretta, parlando di ciò che accade a noi, e a loro. La versione di Vinicio per questi motivi è destinata a diventare un nuovo classico».
C’è un altro aspetto, nello spunto delle rovine: «La lotta alla dimenticanza. Ancora in tanti sono sfollati e aspettano una casa, ma chi se ne ricorda più? L’abitudine certe volte è un vantaggio, altre un male».
Marchioni e Montanari nella vita? «Abbiamo entrambi voci baritonali ma in fondo siamo due cretini. Non possiamo prescindere dal gioco».
Insieme Vinicio, anche regista, e Francesco, amici e colleghi dai tempi di «Romanzo Criminale»