Da Babington’s, con la Morante e Gesù
Roma sparita: anni Sessanta, piazza Navona, i pranzi della scrittrice e i corsi di Rodotà
Era davvero meravigliosa piazza Navona quando era vuota, priva di troppi tavolini e di orpelli. Attorno alla metà degli Anni Sessanta, benché impegnati la mattina seguente nei seminari di Diritto Privato che teneva Stefano Rodotà, assistente di Rosario Nicolò, o magari nelle lezioni di Paratore nell’Aula Magna di Lettere, ancora ci pareva naturale che «il cinema» fosse quello delle dieci e mezzo.
Era davvero meravigliosa piazza Navona quando era vuota, priva di troppi tavolini e di orpelli. Attorno alla metà degli Anni Sessanta, benché impegnati la mattina seguente nei seminari di Diritto Privato che teneva Stefano Rodotà, assistente di Rosario Nicolò, o magari nelle lezioni di Paratore nell’Aula Magna di Lettere (arrivava con un codazzo di dieci assistenti, fra i quali Luca Canali, bellissimo, amato dalle ragazze, e subito sparpagliava una quantità di libri sulla cattedra), ancora ci pareva naturale che «il cinema» fosse quello delle dieci e mezzo. Dopo, intossicati dal fumo anche delle nostre sigarette, (talvolta acquistate in numero di sei o sette e infilate in quella sottile bustina) andavamo a piazza Navona a far tardi. Non c’era nessuno, si sentiva il rumore dell’acqua che ricadeva nel bacile della fontana e, d’inverno, faceva freddo. Quindi – eravamo sempre in tre o quattro, quanti ne conteneva una macchina – per ripararci dal freddo, e perché avevamo sempre fame, entravamo nel «Vini e cucina», quasi all’angolo con il passaggio verso piazza delle Cinque Lune, dove veniva stampato Il Popolo, quotidiano della Democrazia Cristiana.
Il locale, stretto, molto semplice con dei pali che ne sostenevano il soffitto, poteva contenere otto tavolini, non di più. A mezzogiorno ci andavano gli operai che lavoravano nella zona, con la pagnotta portata da casa, e ordinavano vino e gazzosa. Di notte, era un ritrovo di appassionati del bianco dei Castelli e della briscola, di qualche affamato normale, di qualche (come noi) affamato fuori orario. La cucina, che di giorno prevedeva sontuosi fagioli con le cotiche, la sera era limitata a uova al tegamino, pomodori e tonno. Basta. Fra i frequentatori abituali, c’era un anziano barbiere in pensione, assai macilento, molto poco abbiente, molto sfottuto dagli altri frequentatori abituali solo perché si riteneva un artista, del quale eravamo diventati amici. La sua arte, pittorica, consisteva in questo: lui ricopiava, con precisione e esiti eccezionali, i quadri di un pittore inglese del Settecento, John Constable, nei quali erano rappresentati soprattutto boschi, prati, corsi d’acqua, villaggi, firmandosi Paolanton. Era bravissimo. L’estate, per una settimana, li portava su a Montecompatri, dove si respirava «l’aria fina», e cercava di venderli. Ma, sul serio, non aveva mai una lira in tasca. Per cui, spesso lo invitavamo. Anche perché era anche poeta e aveva composto una poesia, in occasione delle Olimpiadi, che dopo qualche insistenza declamava alzandosi in piedi, tremando, in mezzo a quelle iene. La poesia, frutto pressoché certo di una visione fugace che gli aveva lasciato una unghiata nel cuore, si intitolava «La bionda norvegese». Faceva così: «La bionda norvegese che vien dall’aldilà/ discende le scalette dalla Santissima Trinità./ È l’ora del tramonto, l’ora dello splendore,/ l’ora dei ricordi, l’ora dell’amore./ La bionda norvegese che vien dall’aldilà / saluta la città di Roma, città dell’eternità». Se i commensali agli altri tavoli non si esprimevano in maniera garbata, Paolanton diventava viola per l’ira. «Siete invidiosi!» urlava. Lo calmavamo. E si tornava alle uova in tegamino, al pomodoro e tonno che, d’estate, un «tubo» gelato dopo l’altro, mangiavamo di fuori, su quei tavolini con le stecche che si vedono in Poveri
ma belli, fino alle due, alle tre, fino a quando eravamo proprio soli. Di giorno, in quegli anni benedetti che ancora non conoscevano la grande rivoluzione borghese del Sessantotto, essendo pochissimo trafficata o in certe ore quasi deserta, era del pari meravigliosa la Piazza. Particolarmente nelle giornate di gennaio o di febbraio, gelate ma con il sole. Fu in uno di questi momenti miracolosi - nei quali tutto brillava:gli zampilli della fontana, il cielo azzurro – che conobbi Elsa Morante. Avevo da poco finito la mia tesi di laurea in Estetica (relatore il grande Emilio Garroni) sul suo romanzo «Menzogna e Sortilegio». Il poeta Dario Bellezza,mio compagno d’università e suo amico, mi propose di conoscerla e, essendo Elsa curiosissima di tutti coloro che si occupavano di lei, presto disposta a definirli dei «geni», combinò l’appuntamento senza alcuna fatica. Ma insomma; arrivai verso le due. Loro erano seduti a un tavolo del ristorante Panzironi, al sole. Elsa stava finendo di sgusciare l’ultimo scampo. Mi guardò con i suoi occhi viola mostrando subito la propria simpatia, la propria predisposizione a definirmi un genio; poi trasse da una borsa sfondata un bocchino e una sigaretta e, mentre le raccontavo cosa avevo scritto su quel romanzo bellissimo, si mise beatamente a fumare. Così, diventammo amici. Era bello stare con Elsa a pranzo, pure da Babington’s. Talvolta un po’ noioso, perché ripeteva spesso le stesse cose. Tipo che l’unico vero rivoluzionario della storia era stato Cristo, perché era stato l’unico a fare una rivoluzione senza voler prendere il potere (e chi le poteva dar torto). Oppure che Tanizaki era divino. Oppure che non bisognava concorrere ai premi letterari (che però lei aveva già vinto).
L’unica rivoluzione è quella di Cristo: non voleva prendere il potere
I seminari di Rodotà. E Luca Canali che faceva strage di cuori femminili