Corriere della Sera (Roma)

Nino La Rocca, tra Pertini e l’Olgiata

Nino La Rocca, pugile marocchino-siciliano arrivato sul trono d’Europa negli anni 80, narra successi ed errori

- Antonello Sette

Ne è passato di tempo da quando Nino La Rocca 50 anni fa faceva a pugni per mangiare nelle piazze di Marrakech. All’epoca il ragazzo marocchino si chiamava Cheik Tijani Sidibe. E nessuno poteva pensare che 15 anni dopo con un nuovo nome e cognome avrebbe avuto migliaia di fan in Italia e un capotifoso d’eccezione: Sandro Pertini. Oggi l'ex campione europeo dei welter ha 58 anni, è in forma smagliante e vive in una villa all’Olgiata, il comprensor­io più verde e più esclusivo della Capitale. Al suo fianco c’è una donna bellissima e un bambino stupendo, suo figlio. Nino ce l’ha fatta: ora si può godere la vita, ma pugili si resta per sempre. E lui sogna, insegnando i segreti della boxe a un gruppo di giovani, di scoprire il Nino La Rocca del futuro. La sconfitta nel 1984 per il titolo mondiale con Donald Curry, il cobra, brucia ancora.

Una piazza di Marrakech. Un concerto di musica, colori e grida. Un mercatino accanto all’altro. Luna park improvvisa­ti. A cielo aperto. Come tutto qui: i sogni, il pianto, il sorriso, la voglia di vivere. Qui cinquant’anni fa c’era un ring, o qualcosa che cercava di somigliarg­li. Un ring portatile, che montavano, smontavano, rimontavan­o. C’era un allibrator­e che raccogliev­a le scommesse. Chiunque poteva salire su quel quadrato così poco quadrato. Solo al vincitore spettava la borsa, magra, ma sufficient­e a garantire il pranzo almeno per quel giorno. Lui era uno di quei ragazzini che davano più botte di quelle che prendevano. Lui ha cominciato lì. Lui si chiamava Cheik Tijani Sidibe. Nessuno poteva pensare che quindici anni dopo con un nuovo nome e un nuovo cognome avrebbe avuto migliaia di fan in Italia e un capotifoso d’eccezione: Sandro Pertini, il Presidente più amato della Repubblica. Nino La Rocca, come faceva di cognome la madre siciliana, non ha dimenticat­o lo strampalat­o ring dell’esordio, anche ora che è da vent’anni a Roma. «La boxe mi ha salvato dalla povertà e dal dover diventare un delinquent­e», ricorda Nino. E a vederlo oggi a 58 anni in forma smagliante nella sua villa all’Olgiata, il comprensor­io più verde e più esclusivo della Capitale, accanto a una donna bellissima, qui trapiantat­a da Bologna per amore, e a un bambino stupendo, si dovrebbe concludere che Nino ce l’ha fatta, che ora si può godere la vita, senza più altre botte, ma pugili si resta per sempre. Tanto più se hai cominciato in un ring da campo in una piazza di Marrakech. Nino ha imparato a battere un calcio di rigore, ma continua a combattere, come un pugile in attività. Con nella mente e nel cuore le luci e le ombre di una carriera sempre sopra le righe: cinquanta vittoria di fila tanto per cominciare, il PalaEur e il Madison Square Garden stracolmi, un titolo europeo, la fama che arriva sino in America, quel soprannome unico di Alì italiano. Sì perché lui non tirava solo pugni, danzava, inventava numeri sempre nuovi, dava spettacolo davanti a folle sterminate e osannanti. E poi le ombre: l’apprendist­ato segnato dalla miseria, dall’abbandono del padre malese, da allenament­i stressanti, dalla solitudine: «A Bogliasco ero nella scuderia del guru della boxe Rocco Agostino, ma dormivo in un piccolo albergo sul mare. La sera ero sfinito e guardavo la television­e insieme alle clienti meno giovani, quelle che dopo una certa ora non uscivano mai». E poi la battaglia logorante per ottenere la cittadinan­za e diventare un pugile italiano che vinse solo quando Sandro Pertini lo vide mentre era ospite a Blitz, il programma tv di Gianni Minà, e lo chiamò in diretta: «Vieni al Quirinale, ci penso io». E poi un’altra attesa ancora più snervante. Quel maledetto incontro per il titolo mondiale dei pesi welter contro il texano Donald Curry, detto il cobra, inizialmen­te previsto per l’estate 1982. Di scusa in scusa, di mese in mese, Nino La Rocca dovette aspettare due anni e tre mesi. Lui che era abituato a salire sul ring tutti i mesi perché così aveva sempre preteso il mondo ingordo che gli girava intorno. Gli si svuotarono la mente, le braccia, il cuore. E il 22 settembre 1984 andò al tappeto al sesto round. Una sconfitta inaccettab­ile e non accettata. Reagì con un matrimonio sbagliato e una corsa folle nella nebbia dell’alcol da Genova a Montecatin­i. Nino sogna ancora la rivincita o almeno che qualcuno lo vendichi. Nino insegna boxe a una nidiata di ragazzi dell’Olgiata e immediati dintorni. Una palestra adattata alle esigenze della noble art. Un ring stabilment­e montato e l’entusiasmo contagioso di un ragazzo di 58 anni, solo tre chili sopra ai limiti di peso dei welter, la sua categoria. Nino insegna e sogna un altro campione. Poco importa se non si chiamerà La Rocca. Glielo ha insegnato la vita a giocare con i nomi. Cheik Tijani Sidibe è diventato Nino La Rocca. Il futuro Nino La Rocca avrà il nome e il cognome del campione che verrà. Non sarà probabilme­nte Moussa, il suo bambino di due anni che vuole sempre giocare e riempie una villa troppo grande da cui sarà inevitabil­e prima o poi trascolare. Per un nido più piccolo. Per un ring più credibile. Non lo sarà la mamma di Moussa. Valentina. Anche se lei era una campioness­a di boxe tailandese. Fino a quando una sera di cinque anni fa si ritrova vicina di posto in un ristorante romano a un monumento vivente dello sport che tanto ama. Poi un’altra cena e scoppia il colpo di fulmine. Nino e Valentina si innamorano. Incrociano i guanti un po’ per gioco e un po’ per vedere l’effetto che fa. Valentina sente sulla sua pelle che lui è sì inarrivabi­le, ma anche simpatico, solare, profondame­nte buono. Nino è casa e palestra per sei giorni alla settimana. Il venerdì non c’è per nessuno. Va a pregare nella grande moschea di Roma. Dove ritrova la sua Africa, la Mauritania dove è nato, il Marocco del suo primo ring, la sua gente, storie diverse che diventano uguali e l’orgoglio di tutti per quell’unico fratello diventato famoso. Negli altri sei giorni Nino La Rocca è romano di Roma, innamorato della sua storia, dei suoi monumenti, della sua cucina, del suo dialetto, di quel popolo romano capace di vivere ancora la vita con disincanto e soprattutt­o di riderci su, nonostante tutto. E di rialzarsi sempre. Dopo i pugni e i k.o. E che, come lui, aspetta solo di conoscere il nome e il cognome del campione che verrà.

❞ La boxe mi ha salvato dalla povertà e dal diventare un delinquent­e

❞ Sono casa e palestra per 6 giorni a settimana. Venerdì prego nella moschea

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In palestra Il grande Nino La Rocca nella palestra dell’Olgiata dove il campione marocchino­siciliano insegna a un gruppo di ragazzi i segreti di questo duro sport sognando di poter scoprire un giorno un nuovo fuoriclass­e, un nuovo La Rocca
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