«Notti bianche» senza patetismo
La critica storica, da Eurialo De Michelis a Angelo Maria Ripellino, è unanime nel giudicare Le notti bianche di Dostoevskij un’opera minore – e certamente lo è, rispetto ai capolavori che vennero. Pure, letto per la terza o quarta volta e considerato in sé, senza confrontarlo con alcun frutto della genialità del suo autore, tale a me non appare: un’opera minore, ossia (nell’unanime considerazione) un racconto romantico. Romantico, per così dire, lo è, ma in modo preciso, inconfondibile. Lo spettacolo di Francesco Giuffrè, prodotto dal Ghione, lo mostra con chiarezza (e del resto lo mostrava allo stesso modo non già il film che ne trasse Visconti ma di certo Quattro notti di un sognatore
di Bresson). Analogo al procedimento di Bresson è quello di Giuffrè: rigorosa scansione di ogni tratto della breve storia, eliminazione di ogni patetismo. Sebbene con dolcezza, Le notti bianche di Giuffrè vanta un che di brusco: non se ne ricava l’idea che il protagonista si rifugi in se stesso nel momento della sconfitta finale e soprattutto in Nasten’ka è da subito evidente, nella sua ingenuità e purezza, la malizia annidata nel ripostiglio della coscienza. Sono giovani entrambi, e sono, come è fatale, tutti e due dei sognatori. Ma Nasten’ka dal sogno uscirà (dal legame con la nonna), il narratore forse no, ancora preso da quei pupazzi appesi lassù, quelle visioni, quei fantasmi. Una vera rivelazione è Camilla Diana, nella sua levità, nel suo riso; robusto e mai tremante è Giorgio Marchesi accanto a lei.