CORAGGIO SINDACA RAGGI
La maratona Roma la sta correndo da secoli, non solo oggi. È una gara a chi resiste di più: noi cittadini che crediamo nella sensibilità civica o la voglia autodistruttiva che sembra nascondersi in ogni pietra? Dando uno sguardo intorno a noi, sembrerebbe che le cose, con la loro voglia di farsi del male (e farne a noi), stiano avendo la meglio: voragini che si aprono, asfalto in condizioni orribili, alberi che si spezzano a ogni tirar di vento… E qui non si parla di servizi pubblici, per carità. Quello è tema di tribunali fallimentari: aspettiamo il 30 maggio per capire il destino di autobus e metropolitane della capitale d’Italia. Qui invece si parla di uomini, donne e di buche, di resistenza al male e di capacità di fare del bene. Se provaste a mettervi nei panni dell’avvocato Virginia Raggi sono sicuro che il primo sentimento che provereste è la solidarietà. Vorreste che la gente vi stesse vicino, che tutti vi mostrassero affetto per l’opera improba che avete davanti: resistere alle spinte autodistruttive della città. Ancora una volta non si parla di politica, ma di piccolo civismo. Sulla prima pagina di questo giornale, pochi giorni fa, Massimo Gramellini ha commentato con humor triste la devastazione barbarica del parco dei tulipani. Molti nostri concittadini, profittando della generosità degli organizzatori, hanno rubato settemila piante e calpestato le altre. Per comprendere questo fatto non bisogna scomodare categoria politiche, dovrebbe bastare l’educazione.
Ma la mancanza di senso civico è un atteggiamento pre-politico su cui spesso si fonda tutto il resto. Prendersi cura dei dieci metri davanti al proprio portone, alla propria saracinesca, in certi Paesi è normale, qui da noi spesso è visto come uno spreco di tempo e di energie: ciò che è mio è mio, ciò che è di tutti è di nessuno. Per risollevare la città servirebbe anche toccare tasti personali, lanciare campagne di sensibilizzazione: affinché lo scarpone dell’idiota arrogante non distrugga mai più un parco di tulipani.
Ma tornando nei panni della gentile sindaca, va poi detto che una cosa ognuno di noi l’avrebbe voluta fare: dare subito il segno del cambiamento. Un segno tangibile, che tutti – senza sforzo – avrebbero potuto apprezzare. Nei primi giorni di governo, forse sbagliando, il suo predecessore chiuse al traffico i Fori Imperiali. La città visse giorni di sommossa. Ma quella, in ogni caso, d’accordo o no che si fosse, era una cosa evidente. Perché Virginia Raggi non ha fatto qualcosa di simile, sin da subito, sulla condizione delle strade? Non tutti leggono i giornali, non tutti guardano le serie tv, ma tutti passiamo sulle strade. È lì che le azioni di governo diventano eventi popolari. Certo, non ci si può limitare a un maquillage di asfalto; per cambiare una città bisogna agire sulla macchina profonda dell’amministrazione e questo, spero, la giunta grillina lo stia facendo. Ma i segni evidenti - chiudere le buche, tagliare gli alberi - sono quelli che tutti possono cogliere: il momento perfetto in cui la politica si fa corpo, sostanziandosi. Virginia Raggi ha davanti ancora anni di amministrazione. È una donna tenace, non c’è dubbio. Ora abbia il coraggio di scelte importanti, fatte senza la paura del business (lo sciagurato «no alle Olimpiadi»), ma con la voglia, e la forza, di controllarlo. Prendiamo le buche, specchio e sintomo di questa città. Perché non immaginare uno o due appaltatori grandi, e di grande professionalità, a cui demandare la manutenzione continua – e super vigilata - delle strade?
Se nella nostra azienda abbiamo 2000 impiegati e altrettanti computer, quando un pc si guasta cerchiamo ogni giorno un tecnico diverso? Non si avrebbe un miglior servizio con una convenzione stipulata con una società seria di riparazioni che, magari, è sempre pronta, con personale dislocato nella nostra azienda? Il principio è simile: per chiudere una buca faccio una garetta d’appalto? E per chiudere mille buche faccio mille garette d’appalto? Forse bisogna ricominciare a pensare in grande, dare segni importanti a questa città. Le maratone si corrono da secoli, lo sappiamo. Ma alla fine un po’ ci si stanca.