Quelle serate con Moravia il «mattatore»
Èstrano. Ci sono delle persone che muoiono e dopo la loro morte gli anni trascorrono con una velocità che fa paura. Alberto Moravia è uno di costoro. È morto nel settembre del 1990. Dunque, sono trascorsi 28 anni. Incredibile.
Èstrano. Ci sono delle persone che muoiono e dopo la loro morte il computo degli anni è «normale», vale a dire che rispetta le regole «normali» del tempo; poi ce ne sono delle altre che muoiono e dopo la loro morte gli anni trascorrono con una velocità che fa paura. Alberto Moravia, lo scrittore romano per eccellenza, è uno di costoro. È morto nel settembre del 1990. Dunque, sono trascorsi 28 anni. Incredibile.
Ricordo molto bene i giorni precedenti la sua morte, per un paio di occasioni. La prima fu una cena a casa mia con svariati ospiti. Moravia, vestito di scuro, era in grandissima forma: scherzava, conversava, raccontava il raccontabile (per esempio di quando un suo parente da parte di madre, De Marsanich, gli aveva offerto di diventare governatore della Dalmazia, o di quando aveva intervistato mi pare l’Imperatore del Giappone) e presto diventò il dominus della serata. Tanto che, a un certo punto, andai dai miei figli e li tirai giù dal letto.
La seconda volta, fu due giorni prima che morisse. Era il compleanno di un nostro comune amico, il regista Gianni Barcelloni, che con Moravia era stato in mezzo mondo e con me lavorava spesso. Ci invitò, insieme alla sua compagna Marina, a cena in un ristorante che si chiama l’Evangelista dove cucinano in modo speciale i carciofi. Ma era cambiato tutto. Moravia – che Gianni era andato a prendere a casa – non aveva notizie della moglie da una settimana ed era di pessimo umore. A tavola disse che aveva avuto come un rombo dentro l’orecchio per l’intero pomeriggio che lo aveva fatto soffrire e che per lui questa sofferenza, testuale, «era un insulto».
Dopo cena, a casa lo accompagnai io. Fino al portone. Mi dette una mano fredda, mi ringraziò: «Grazie Montefoschi» (perché ci davamo dopo anni e anni «del lei» – io credo fossi l’unico a Roma) e sparì nel portone. Ebbi l’impressione che fosse molto vecchio. Due mattine dopo non c’era più.
Moravia è stato uno degli uomini più intelligenti che ho conosciuto. I suoi romanzi ti potevano piacere fino a un certo titolo e a una certa data, o piacere tutti, o non piacere nessuno, ma che fosse una persona estremamente intelligente, libero nel pensiero, anticonformista (motivo per il quale il «generone» romano lo considerava apparentato col demonio), su questo non si poteva discutere. Lui, oltretutto, della sua intelligenza, di cui era consapevole, amava fare sfoggio: soprattutto a sorpresa.
Andavamo nelle trattorie (dove si spazientiva mentre gli altri scorrevano il menù, perché lui voleva subito gli spaghetti al pomodoro); chiacchieravamo; poi di colpo, nel mezzo di una discussione, sotto quei ciglioni arruffati gli si illuminavano gli occhi e, proprio come un felino che balzasse sulla preda, capovolgeva il discorso.
Era anche una persona molto gentile. E disponibile: perché il pomeriggio si annoiava e, se non andava al cinema con un «ripetitore» dei dialoghi per via della sordità («Che ha detto»? si sentiva nella sala semivuota), accettava qualunque invito.
Però, la disponibilità che a me colpiva di più era quella fisica: la capacità di adattamento alle condizioni di viaggio più faticose e più estreme, in Africa, in Asia, in India, di cui mi parlava sempre Barcelloni. Ebbi la possibilità di verificarlo (in una situazione non estrema) quando molti anni fa il Comune di Fondi decise di ri- pristinare il Premio di Poesia intitolato al poeta fondano Libero de Libero. Moravia, aveva trascorso un anno, insieme a Elsa Morante, durante l’ultima guerra, sulle montagne dietro Fondi, coi pastori ai quali leggevano il Vangelo. Quindi il Comune mi incaricò di chiedergli se voleva fare il presidente della giuria. Accettò immediatamente. E la sera della premiazione (fu premiato Maurizio Cucchi con un discreto assegno) arrivò accompagnato da Gianni Barcelloni.
Ora, in quegli anni, a Fondi non c’erano alberghi, solo una pensioncina, modestissima. Siccome la conoscevo, dissi a Gianni: «Senti, ma non è meglio che dopo la cena ve ne tornate a Roma?». Ma entrambi dissero di no. Insistetti: «È una stanzetta a due letti». Risposero che andava bene. E in effetti andò benissimo. La mattina seguente – mi disse Gianni –
Una volta a casa mia scherzava, raccontava... tanto che tirai giù dal letto i miei figli
Anticonformista
Era libero nel pensiero, per questo il «generone» romano lo riteneva parente del demonio
Viaggiatore
Mi colpiva la capacità di adattamento alle condizioni di viaggio più faticose e più estreme
Moravia era come sempre perfetto e, testuale, «fresco come una rosa».
Non si arrabbiava mai. L’unico che riusciva a mandarlo fuori dei gangheri era Dario Bellezza alle riunioni di «Nuovi Argomenti».
Moravia arrivava con camicia scozzese, cravatta gialla a pois, golf rosso, giacca di tweed marrone (solo lui riusciva a essere elegantissimo con quegli accostamenti di colori), e Dario gli si sedeva vicino. Poi, quando la riunione languiva gli sussurrava una frase di questi tipo: «Ho saputo che al tal dei tali hanno dato un anticipo di trecento milioni». E Moravia, paonazzo: «E a me che me ne importa!». Oppure: «Alberto, tutti dicono che Saul Bellow vincerà il Nobel…». Moravia amava Dario come un figlio.