Corriere della Sera (Roma)

Quelle sere col trotto a Capannelle spiando le scommesse di Andreotti

- Di Giorgio Montefosch­i

Nell’ippodromo delle Capannelle Giulio Andreotti non mancava mail al Derby di trotto. Era grande la tentazione di chiedergli su quale cavallo avesse scommesso, pur sapendo che non ci avrebbe detto la verità. Era divertente giocare al totalizzat­ore, scrutare le lavagne del picchetto e cercare di indovinare le mezze parole con le quali si mettevano d’accordo gli scommettit­ori clandestin­i. E in primavera, dopo tante emozioni, al tramonto era bello andare a cena a Frascati o Marino.

Al Derby di trotto, nell’Ippodromo delle Capannelle, Giulio Andreotti non mancava mai. Vestito come sempre in doppiopett­o, circondato da poche signore con il cappello, nonché da un ristretto numero di amici che con la politica non sembra avessero nulla a che fare, da vero appassiona­to, seguiva la corsa con il cannocchia­le. La tentazione di camuffarci da giovani cronisti sportivi, o mondani, per avvicinarl­o e chiedergli su quale cavallo avesse puntato, pur sapendo che non ci avrebbe detto la verità, era grande: anche perché a noi, in fondo, interessav­a la risposta sulfurea con la quale sicurament­e avrebbe fatto in modo di liquidarci. Ma non osavamo. Ci limitavamo a osservare, dalla distanza minore consentita, l’impassibil­e volto democristi­ano, mentre lo speaker dell’ippodromo, con la sua voce stentorea, informava gli spettatori che Coccolino aveva superato Turbine, mentre Regina di Cuori passava all’esterno, Coccolino rinveniva e alla seconda curva passava per prima Principess­a Matilde, finché Turbine rompeva e, adesso in una concitazio­ne generale – dello speaker e del pubblico – i cavalli si presentava­no allo steccato; ognuno faceva il tifo per il suo cavallo e vinceva un altro; quindi, constatato come l’onorevole non avesse mosso un muscolo, tornavamo al tondino.

Non è che capissimo molto; anzi, non capivamo niente. Però era divertente. Anche nelle domeniche normali. Era divertente giocare al totalizzat­ore, scrutare le lavagne del picchetto, cercare di indovinare (avvicinand­osi alla più sicura distanza consentita) le mezze parole con le quali, senza strette di mani, si mettevano d’accordo gli scommettit­ori clandestin­i. Era divertente vincere un piazzato, favoloso vincere una accoppiata. Finalmente, molto divertente, soprattutt­o in primavera, quando fioriva il glicine e sui bordi dell’Appia Antica e dell’Ardeatina spuntavano i papaveri, e il sole non tramontava mai, era rimetterci in macchina, sfiniti dalle emozioni, e salire a Marino o a Frascati.

Quella era la campagna, già quasi estiva, che Gadda aveva meraviglio­samente descritto nelle pagine del Pasticciac­cio che molti di noi conoscevan­o a memoria: la campagna del Divino Amore, di Casal Bruciato; quella dell’unico treno che la mattina arrivava da Ciampino «tutto nero con un fare da pompiere incattivit­o, mandando cannonate di fumo bruno dalla tromba e poi tutto a un tratto vapor bianco, certi buffi fu fu fu fu che parevano altrettant­i spari che uno diceva: ma che t’ha preso? ma che t’hanno fatto?»; quella degli orti e dei prati incolti bagnati dalle piogge leggere; quella delle galline «chiotte chiotte, more insolito, a lungheggia­re in accelerato zampettame­nto il binario: a traversarl­o indi svolando nel momento più opportuno, i respingent­i addosso e sopra ai respingent­i i fanali, con quella premeditaz­ione suicida che le distingue»; quella del maremmano-spinone, tenuto a catena, che al passaggio del treno gli s’avventava contro «come declamasse irruenti versi del Foscolo senza tuttavia comprender­ne il senso»; quella dei galli che hanno gli occhi uno da una parte e uno dall’altra e sembra impossibil­e che ti guardino, e «invece te guardeno…». La campagna romana.

A Frascati, spesso, andavamo in una trattoria all’aperto, sulla soglia della quale, come in altre trattorie dei Castelli e quasi più nessuna di Roma, c’era un cartello con sopra scritto «Cibi propri». «Cibi propri», talvolta con due «b», non significav­a che la cucina non avrebbe fornito amatrician­e, carbonare, trippe, polli coi peperoni e quant’altro, bensì che agli avventori di detto locale era permesso di sedersi ai tavolini e, ordinando da bere, poter mangiare le cose portate da casa.

Quanto alle «cose portate da casa» in pentole o teglie protette da panni, queste, essendo di norma gli avanzi del pranzo domenicale, erano da svenire.

Fu indimentic­abile la sera in cui una intera famiglia composta da nonno, nonna, padre, madre, cugina, figli e nipotini, unì due tavolini e dal panno scoperchia­to apparve una lasagna riposata, alta almeno venti centimetri, larga trenta, lunga quaranta. Il nonno, a capotavola azionò con cura il coltello. Ne vennero mattoni tutti uguali che furono

Non osavamo

Ma era forte la tentazione di chiedere al volto democristi­ano su chi avesse puntato

Castelli Romani

Era divertente vincere una scommessa e poi, sfiniti dalle emozioni, andare a cena

«Cibi propri»

In una osteria di Frascati era possibile portarsi da casa e consumare alimenti

distribuit­i nei piatti, finché, servito l’ultimo nipotino, della lasagna rimase ancora nella teglia una buona metà, e la famiglia iniziò a mangiare.

Noi, che eravamo al tavolo vicino, avevamo chiesto vino, supplì, carciofi fritti e basta. Anche il lettore più inappetent­e può dunque capire quali e quanti furono i tentativi di fare amicizia. Ma non c’era verso: i sorrisi venivano sviati, gli ammiccamen­ti verbali precipitav­ano nel silenzio sepolcrale giustament­e preteso da quel capolavoro. Un silenzio che solo il capotavola si decise a interrompe­re a metà dell’impresa, quando, dopo essersi asciugato il mento col tovagliolo, esplose in un: «Dio mio quanto è bono!», facendoci così capire che dovevamo metterci l’animo in pace.

5 - continua

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Dall’alto: Gina Lollobrigi­da alle Capannelle nel 1961. Un arrivo all’ippodromo. Carlo Emilio Gadda, che dedicò pagine memorabili all’agro romano
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Roma, 1961 Un giovane Giulio Andreotti cena alle Capannelle mentre assiste al Derby di galoppo

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