Quelle sere col trotto a Capannelle spiando le scommesse di Andreotti
Nell’ippodromo delle Capannelle Giulio Andreotti non mancava mail al Derby di trotto. Era grande la tentazione di chiedergli su quale cavallo avesse scommesso, pur sapendo che non ci avrebbe detto la verità. Era divertente giocare al totalizzatore, scrutare le lavagne del picchetto e cercare di indovinare le mezze parole con le quali si mettevano d’accordo gli scommettitori clandestini. E in primavera, dopo tante emozioni, al tramonto era bello andare a cena a Frascati o Marino.
Al Derby di trotto, nell’Ippodromo delle Capannelle, Giulio Andreotti non mancava mai. Vestito come sempre in doppiopetto, circondato da poche signore con il cappello, nonché da un ristretto numero di amici che con la politica non sembra avessero nulla a che fare, da vero appassionato, seguiva la corsa con il cannocchiale. La tentazione di camuffarci da giovani cronisti sportivi, o mondani, per avvicinarlo e chiedergli su quale cavallo avesse puntato, pur sapendo che non ci avrebbe detto la verità, era grande: anche perché a noi, in fondo, interessava la risposta sulfurea con la quale sicuramente avrebbe fatto in modo di liquidarci. Ma non osavamo. Ci limitavamo a osservare, dalla distanza minore consentita, l’impassibile volto democristiano, mentre lo speaker dell’ippodromo, con la sua voce stentorea, informava gli spettatori che Coccolino aveva superato Turbine, mentre Regina di Cuori passava all’esterno, Coccolino rinveniva e alla seconda curva passava per prima Principessa Matilde, finché Turbine rompeva e, adesso in una concitazione generale – dello speaker e del pubblico – i cavalli si presentavano allo steccato; ognuno faceva il tifo per il suo cavallo e vinceva un altro; quindi, constatato come l’onorevole non avesse mosso un muscolo, tornavamo al tondino.
Non è che capissimo molto; anzi, non capivamo niente. Però era divertente. Anche nelle domeniche normali. Era divertente giocare al totalizzatore, scrutare le lavagne del picchetto, cercare di indovinare (avvicinandosi alla più sicura distanza consentita) le mezze parole con le quali, senza strette di mani, si mettevano d’accordo gli scommettitori clandestini. Era divertente vincere un piazzato, favoloso vincere una accoppiata. Finalmente, molto divertente, soprattutto in primavera, quando fioriva il glicine e sui bordi dell’Appia Antica e dell’Ardeatina spuntavano i papaveri, e il sole non tramontava mai, era rimetterci in macchina, sfiniti dalle emozioni, e salire a Marino o a Frascati.
Quella era la campagna, già quasi estiva, che Gadda aveva meravigliosamente descritto nelle pagine del Pasticciaccio che molti di noi conoscevano a memoria: la campagna del Divino Amore, di Casal Bruciato; quella dell’unico treno che la mattina arrivava da Ciampino «tutto nero con un fare da pompiere incattivito, mandando cannonate di fumo bruno dalla tromba e poi tutto a un tratto vapor bianco, certi buffi fu fu fu fu che parevano altrettanti spari che uno diceva: ma che t’ha preso? ma che t’hanno fatto?»; quella degli orti e dei prati incolti bagnati dalle piogge leggere; quella delle galline «chiotte chiotte, more insolito, a lungheggiare in accelerato zampettamento il binario: a traversarlo indi svolando nel momento più opportuno, i respingenti addosso e sopra ai respingenti i fanali, con quella premeditazione suicida che le distingue»; quella del maremmano-spinone, tenuto a catena, che al passaggio del treno gli s’avventava contro «come declamasse irruenti versi del Foscolo senza tuttavia comprenderne il senso»; quella dei galli che hanno gli occhi uno da una parte e uno dall’altra e sembra impossibile che ti guardino, e «invece te guardeno…». La campagna romana.
A Frascati, spesso, andavamo in una trattoria all’aperto, sulla soglia della quale, come in altre trattorie dei Castelli e quasi più nessuna di Roma, c’era un cartello con sopra scritto «Cibi propri». «Cibi propri», talvolta con due «b», non significava che la cucina non avrebbe fornito amatriciane, carbonare, trippe, polli coi peperoni e quant’altro, bensì che agli avventori di detto locale era permesso di sedersi ai tavolini e, ordinando da bere, poter mangiare le cose portate da casa.
Quanto alle «cose portate da casa» in pentole o teglie protette da panni, queste, essendo di norma gli avanzi del pranzo domenicale, erano da svenire.
Fu indimenticabile la sera in cui una intera famiglia composta da nonno, nonna, padre, madre, cugina, figli e nipotini, unì due tavolini e dal panno scoperchiato apparve una lasagna riposata, alta almeno venti centimetri, larga trenta, lunga quaranta. Il nonno, a capotavola azionò con cura il coltello. Ne vennero mattoni tutti uguali che furono
Non osavamo
Ma era forte la tentazione di chiedere al volto democristiano su chi avesse puntato
Castelli Romani
Era divertente vincere una scommessa e poi, sfiniti dalle emozioni, andare a cena
«Cibi propri»
In una osteria di Frascati era possibile portarsi da casa e consumare alimenti
distribuiti nei piatti, finché, servito l’ultimo nipotino, della lasagna rimase ancora nella teglia una buona metà, e la famiglia iniziò a mangiare.
Noi, che eravamo al tavolo vicino, avevamo chiesto vino, supplì, carciofi fritti e basta. Anche il lettore più inappetente può dunque capire quali e quanti furono i tentativi di fare amicizia. Ma non c’era verso: i sorrisi venivano sviati, gli ammiccamenti verbali precipitavano nel silenzio sepolcrale giustamente preteso da quel capolavoro. Un silenzio che solo il capotavola si decise a interrompere a metà dell’impresa, quando, dopo essersi asciugato il mento col tovagliolo, esplose in un: «Dio mio quanto è bono!», facendoci così capire che dovevamo metterci l’animo in pace.
5 - continua