UNA CITTÀ IN MANO AI GABBIANI
Roma ha cambiato riferimenti (in peggio) perdendo lo spirito beffardo di Sordi
Un giorno apparvero i gabbiani. Nessuno sa dire con precisione quando accadde, ma abbastanza d’improvviso popolarono i cieli, i tetti e le strade di Roma. Una mutazione di specie, una colonizzazione faunistica che ha soppiantato i passeracci, i piccioni, gli uccellacci e uccellini della città, riflesso di un’altra mutazione: quella dei comportamenti tra le persone.
Il gabbiano è animale ingannatore. Maestoso, bianco, alto nel cielo sembra voler annunciare spazi di libertà, orizzonti marini e ignoti. Ma il gabbiano, approdato in città, svela invece un’anima divoratrice, padrona e aggressiva. L’affollamento hitchcockiano dei gabbiani non è la causa, ma il sintomo dello stravolgimento di Roma. Il gabbiano che divora il topo nel quartiere Prati riflette la mutazione dell’essenza della città, incanaglita nella sua lotta quotidiana per il predominio, nella quale prevale il più forte e il più rapace.
Al garrito dei gabbiani nel cielo di Roma corrisponde la nuova lingua parlata dagli abitanti della città. E rimanda a un nuovo racconto. Se per decenni l’immagine cinematografica di Roma poteva credere di specchiarsi ancora nel Nando Moriconi di Alberto Sordi o nell’Enzo di Carlo Verdone, adesso quel coatto tenero e goffo, cinico di buon cuore, è solo una maschera folklorica, con tutto il suo arredo di marane di Pietralata e appuntamenti al palo della morte.
La narrazione in chiave di commedia di Roma – oggi, col cielo e le strade abitate dai gabbiani – ha cambiato verso. La nuova lingua, nei suoi aspetti più estremi e criminali, è la testata di Roberto Spada al giornalista, è l’aggressione dei bravi ragazzi del clan Casamonica nel bar della Romanina, è l’autobus che prende fuoco in via del Tritone.
Forse questi sono episodi parossistici, ma ciascuno di noi può raccontare di avere assistito all’esplosione di piccoli e grandi episodi di violenza, di scortesia e di sopraffazione a un incrocio, in un ufficio postale, dentro un bar o in un ospedale. Ciascuno di noi può raccontare di avere visto la lotta tra un topo e un gabbiano sul marciapiede sotto casa, vicino a un cassonetto straboccante di rifiuti, rimanendo stupefatti così come restiamo rapiti dal documentario del Nati on al Geographic che propone lo scontro tra il cobra e la mangusta.
Per questo il racconto di Roma, percepito fuori e dentro la capitale, il più indicativo della nuova immagine della città, è oggi la serie “Suburra” o il film di Claudio Caligari “Non essere cattivo”. Oppure, se proprio si vuole restare nella commedia, è il paesaggio livido e suburbano di “Lo chiamavano Jeeg Robot”. I nuovi coatti, sotto il cielo solcato dai gabbiani, non hanno più la beffarda grevità di Nando o di Enzo, ma la disperazione canagliesca e la Un gabbiano reale cattura un grosso topo in via Catone. La foto è stata scattata l’altro ieri, verso le 18
I bravi ragazzi
La nuova lingua, nei suoi aspetti più estremi e criminali, è la testata di Roberto Spada
violenza esplicita espresse da Claudio Santamaria e Luca Marinelli. Nessuno si salva, neppure il supereroe che trova i suoi poteri non più nella marana, ma in un Tevere avvelenato, sotto lo sguardo di un Cupolone indifferente e distante.
Perfino la rivalità sociale e urbanistica tra Roma nord e Roma sud viene declinata in molti video d’autore sotto la forma, ironica, ma evocativa di separatezza e incomunicabilità, dell’eterno irrisolvibile scontro tra Montecchi e Capuleti, di Orazi e Curiazi. E su nel cielo, sopra un Colosseo vasto quanto l’intera città, teatro di duelli fra nuovi feroci gladiatori, i gabbiani gridano volando in cerchio. Quei garriti ci dicono cosa siamo diventati: se per un momento avevamo potuto credere di essere ancora poveri, ma belli, dobbiamo rassegnarci al fatto straziante di essere diventati poveri, ma brutti. E i gabbiani di Roma ce lo spiegano ogni giorno.