Giovanardi canta la generazione degli anni Novanta
Mauro Ermanno Giovanardi in concerto all’Auditorium canta Bluvertigo, Neffa e Ustmamò
La colonna sonora degli anni ‘90 non è stata uguale per tutti. Dalle casse dei lettori cd risuonava un maculato carosello di musica in cui spopolavano i Guns’N Roses di November rain, i Take That seducevano le teenagers, i club kids affollavano i rave, la dance scalava le classifiche mentre l’America regalava i Nirvana e il Brit Pop conquistava l’Europa. A questo scenario, in Italia, si aggiungeva un popolo di orecchie ancora dondolate dalle canzoni di Patti Smith, Nick Cave e Joy Division, aggrappate al sacro rock anglosassone del decennio precedente ma in cerca di una sua declinazione nuova e nostrana. Era la generazione che ascoltava La Crus, Afterhours, Marlene Kuntz, Mau Mau, C.S.I. e Ustmamò. Alfieri di quella che Mauro Ermanno Giovanardi definisce «una piccola grande rivoluzione».
«Eravamo musicisti alieni, non allineati, stanchi di scimmiottare gli inglesi – ricorda esploravamo ancora quelle pieghe del suono, trovando però parole italiane per cantare i nostri umori viscerali. Il pubblico capì e l’industria discografica colse l’attimo. In un baleno passammo dai live nei piccoli club alle piazze». A quella stagione Giovanardi ha dedicato un album intitolato La mia generazione, e un concerto omonimo che stasera arriva all’Auditorium arricchito dalla partecipazione sul palco di Rachele Bastreghi dei Bau- stelle, Cristina Donà, Marina Rei, Cristiano Godano dei Marlene Kuntz e Raiz degli Almamegretta. Eroi di quel decennio musicale, quasi tutti protagonisti di un cameo nel disco del cantante milanese.
Tredici tracce d’epoca, da Cieli neri dei Bluvertigo cantata con Samuel dei Subsonica a Baby dull degli Ustmamò in duetto con la Bastreghi, fino a Huomini di Ritmo Tribale dove la guest è Manuel Agnelli. Difficile chiamarle cover, perché Giovanardi le ha smontate con sacro rispetto e poi ricucite col talento di un sarto su se stesso e i suoi ospiti. «È stato il lavoro più difficile della mia vita – confessa il fondatore dei La Crus – in cui ho affrontato sfide rischiose come inoltrarmi nello sconosciuto pianeta hip hop di Neffa o cantare Forma e sostanza senza essere Giovanni Lindo Ferretti. Dunque ho scelto di non fare il verso a nessuno e rendere ogni canzone assolutamente mia. Interpretandole senza violarle».
Così nelle sue mani Huomini si rivela un pezzo per pianoforte, Cieli neri calza come un guanto il sound anni ‘70, Cose difficili dei Casino Royale è un avvolgente soul, mentre Il primo Dio dei Massimo Volume e Aspettando il sole di Neffa suonano addirittura come degli inediti. Canzoni praticamente nuove, ma non tradite. «Anche nelle collaborazioni ho evitato l’effetto nostalgia – racconta – piuttosto ho acceso nuovi cortocircuiti tra vecchi amici, dove nessuno canta se stesso vent’anni dopo ma tutti intonano la stessa generazione. Lontana anni luce dall’Italia di oggi, tra musica in download e ascolto usa e getta, diventata purtroppo il quarto mondo del rock».