Da «spelacchio» (magro) a «ciotto» (carino): ecco il romanesco parlato oggi
Il docente: dialetto vivace. E tra i neologismi ecco «spelacchio»: magro, malmesso
Nella precoce occupazione autunnale del liceo Virgilio, nell’ottobre 2017, un tam tam girò sui social media per attirare partecipanti agli ameni party notturni organizzati in cortile nel week end: «Calate tutti al Virgilio occupato». Intendendo «venite, raggiungeteci». E così fu.
A Roma, come nel resto del mondo, il linguaggio dei giovani è in continuo fermento e si nutre inevitabilmente del dialetto locale ma con una quota aggiuntiva di fantasia e creatività. «Scialla», dopo il fortunato e intelligente film scritto e diretto nel 2011 da Francesco Bruni, significa per tutti «stai sereno», se ne occupò anche l’Accademia della Crusca costretta a fare i conti con la contemporaneità. Ma basta mettersi in ascolto davanti ai licei, aspettando figli in uscita, o ai semafori in motorino (la reattività romanesca di fronte a ogni evento è proverbiale) per ascoltare ondate di neologismi in un vernacolo adolescenziale rivisto nel secondo decennio del terzo millennio. E scoprire che «ciotto» significa «carino», «fare rate» indica «fare schifo» e «piottare» definisce un’andatura velocissima. Se si cerca ospitalità si usa il termine «imboccare» («Chi mi fa imboccare a casa sua oggi?»). Spelacchio, l’albero di Natale più triste del pianeta eretto dal Comune nel dicembre scorso in piazza Venezia, è diventato sinonimo di un tipo umano magro e malmesso («’A spelacchio!»)
Il romanesco, insomma, è vivissimo anche come materia letteraria. È uscito da Mondadori l’ultimo bel libro di Eraldo Affinati, «Tutti i nomi del mondo», resocontobilancio dell’esperienza dello scrittore come insegnante di italiano nella scuola per immigrati «Penny Wirton», dove il protagonista-docente si confronta con un ex alunno, Ottavio, che si esprime solo in romanesco.
Spiega il professor Claudio Giovanardi, docente di Storia della lingua a Roma Tre e coautore con Paolo D’Achille di un lungo e accurato lavoro per il «Vocabolario del romanesco contemporaneo» edito, un volume per ogni lettera, da Aracne: «Tutti i linguaggi giovanili rappresentano un elemento di creatività. Ma qui, nonostante le previsioni di una sua scomparsa per il continuo annacquarsi, il romanesco manifesta una notevole vivacità ed effervescenza e gode di buona salute per la grande circolazione tra le fasce giovanili con modalità d’uso sempre diverse e attente alla contemporaneità». Il docente nota pure che un certo romanesco storicamente radicato appare indistruttibile: «I ragazzi usano sempre, anche nei tempi dello studio e nei rapporti con i professori, espressioni come “annamo” per andiamo, “vedemo” per vediamo, “quanno” per quando e via dicendo». Dunque, chi dava il romanesco per morto a causa prima dell’immigrazione interna (dopo l’Unità d’Italia nell’800 e poi nel ’900, nel secondo dopoguerra) ha sbagliato i calcoli. Per la felicità dei linguisti, questa nostra disastrata Capitale mantiene intatta la sua capacità inventiva. Almeno in questo, è la Roma di sempre: brillante, arguta, allegra.