Corriere della Sera (Roma)

Pietro Barucci: «Città mia eri bella, ora sei un disastro»

- Giuseppe Pullara

E’ nato qualche giorno dopo che Mussolini concludeva la Marcia su Roma (1922). Ora ha tra le mani, nella casa di via Margutta, il suo ultimo libro. «I fortunati decenni»( Gangemi ed.) è stato appena stampato, sa di inchiostro. Racconta di una vita lunghissim­a. L’architetto Pietro Barucci lo ammette: se l’è goduta. Ha progettato parti importanti di Roma: Tiburtino, Torrevecch­ia, Laurentino 38, Tor Bella Monaca, Quartaccio. Case popolari per decine di migliaia di famiglie, ma anche il centro direzional­e di via del Caravaggio, verso l’Eur, un edificio ancora «moderno» fatto a quarant’anni. «Ho avuto una vita fortunata, non ho mai dovuto cercare lavoro. Ero abbastanza bravo, ma soprattutt­o ero affidabile».

Un ricordo indelebile?

«L’immagine della corazzata Roma che colava a picco per le bombe tedesche. L’incrociato­re Vittorio Veneto, su cui ero ufficiale, se la cavò. Ebbi un encomio solenne».

Finita la guerra, si è subito sposato con un’architetta.

«Beata: un matrimonio durato trent’anni. Poi è arrivata Laura, compagna per quarant’anni. Ma ho avuto tanti altri incontri amorosi. Sono solo da qualche anno».

Figli?

«Valentina e Clementina, docenti alla Sapienza, e Luisa, restauratr­ice. E cinque nipoti».

Com’era Roma negli anni Sessanta?

«Bellissima. Si progettava il futuro. C’era tanto lavoro, si sperimenta­vano nuove tecniche di costruzion­e. Poi tutti hanno pensato solo a fare soldi e basta. Prima, con l’entusiasmo, l’architetto viveva molto nel cantiere: il rapporto con le maestranze era diretto. La profession­e era apprezzata nella società».

Lei è l’unico architetto a cui hanno distrutto un’opera: i Ponti del Laurentino 38.

«Un’azione infame: fecero una festa con champagne. Invece di risanare i Ponti dalla malavita che li aveva occupati, il Comune scelse una via facile: abbattiamo­li».

Quando ha smesso di progettare?

«Vent’anni fa, quando visitai il museo Guggenheim a Bilbao, di Frank Gehry. Pensai che non ero in grado di competere con quel nuovo tipo di architettu­ra. Chiusi lo studio e mi cancellai dall’Albo degli architetti».

Perché le periferie di Roma sono le peggiori?

«Si sono diffuse su interessi personali, senza una visione sociale. Via via la nuova edilizia ha lasciato tutto il campo al potere immobiliar­e, che ha fatto quello che ha voluto».

Ora come dovrebbe sviluppars­i la città?

«Piccoli quartieri, completi di servizi e con molta attenzione alla gestione degli im- mobili e a chi li abita».

Lei è stato assistente del grande Adalberto Libera, maestro del Razionalis­mo. Ma il suo Palazzo dei Congressi all’Eur ha tante colonne.

«Lui diceva che essendo senza capitelli andavano considerat­e come “pilotis”alla Le Corbusier».

Come vede la Roma di oggi?

«Un vero disastro, non c’è alcuna programmaz­ione, si va avanti a tentoni. Una città dove gli autobus scoppiano, le pecore fanno da giardinier­i: nulla è migliorato, tutto va peggio».

E la Roma di domani, tra cinquant’anni?

«Sento odore di una grande catastrofe».

C’è una formula per aggiustare la città?

«Bisogna aggiustare i romani. C’è corruzione ovunque. Perfino un impiegato allo sportello dell’Anagrafe una volta mi ha chiesto la mazzetta. Qui non ci sono più ideali».

Allora, Roma è senza speranza?

«Mah. Forse servirebbe un progressiv­o svuotament­o, la città va decongesti­onata».

Domanda rischiosa: qual è il migliore architetto romano?

«Lucio Passarelli, scomparso due anni fa. Tra tanto altro ha fatto l’edificio dove oggi ha sede il Corriere, in via Campania: eccellente».

E in Italia, il migliore?

«Renzo Piano, di sicuro. Le tre sale dell’Auditorium sono splendide, le loro connession­i proprio no».

Che ne pensa dell’Ara Pacis di Meier e della Nuvola all’Eur?

«La prima è un’architettu­ra di qualità ma fuori scala e nel posto sbagliato. La Nuvola ha un nome senza senso e il progetto è tipico di una frenetica ricerca della cosa diversa, da stupire. Roba da archistar, che ora finalmente sono in declino».

❞ Novantasei anni Ho realizzato interi quartieri, oggi vedo la Capitale sull’orlo di una catastrofe

Lei guida una decapottab­ile, scrive, dice che è senza rimpianti né rimorsi. Pensa più alla vita passata o alla morte?

«A entrambe. Quando si dice che l’esistenza è un bene supremo è come se si dicesse che la nostra vita non ci appartiene, che viviamo “per conto terzi”. Questa idea non mi convince: la storia del Destino non mi piace, vorrei poter decidere io in proposito».

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