La casupola su un albero
A 30 metri dal suolo, tra i rami di un cedro. Mistero su chi la usa
Wilderness a Villa Ada, ovvero sprazzi di natura selvaggia, neo primitiva, in uno degli anfratti nascosti tra i sentieri. È un mistero la casa sull’albero, issata in cima a un cedro alto una trentina di metri, non lontano dalle antiche scuderie ormai fatiscenti. A fine giugno, durante un incontro tra il dipartimento Ambiente e le associazioni, viene segnalata la presenza della struttura, con tanto di sopralluogo per localizzarla: invisibile, a meno di non alzare lo sguardo da sotto il fusto. La dimora tra le fronde, oltre allo stupore per come è stata costruita, desta una certa preoccupazione: vuoi per il pericolo della caduta di oggetti (la zona è frequentata da runner, ciclisti, padroni di cani) vuoi perché rimangono tracce della presenza umana, nonostante sembri disabitata.
I primi avvistamenti, a sentire la vulgata che circola tra i più assidui frequentatori del parco, risalgono a un anno fa. «Alcune signore raccontano di aver visto un gruppetto di persone, non sappiamo se italiane o straniere, tirar su le assi con delle funi», rivela Lorenzo Grassi, coordinatore di Osservatorio Sherwood. Altri, nei mesi a seguire, avrebbero provato ad arrampicarsi per scalare la vetta e godersi il panorama. Se non fosse che il fascino del rifugio ad alta quota, dal quale si vede fino al Monte Soratte, potrebbe innescare l’effetto emulazione: tanto più rischioso considerate l’agilità e la prestanza fisica necessarie (oltre a una buona dose di temerarietà) per raggiungere la sommità a mani nude. «Ieri (sabato, ndr) abbiamo impiegato un’ora per arrivare fin lassù con l’attrezzatura da alpinisti — ricorda Grassi —. È incredibile che qualcuno possa aver vissuto sull’albero senza alcun supporto per salire e scendere. Di sicuro, bisogna essere dotati di forza e notevoli qualità atletiche».
La micro spedizione di curiosi non è stata in grado di verificare se la casa in questo momento sia occupata. Quel che è certo è che una serie di indizi — dal giaciglio ai panni stesi fino alle scorte d’acqua — lascia supporre quantomeno un passaggio: difficile collocarlo nel tempo e stabilirne la durata. Dilemma che si aggiunge al paradosso, non meno inverosimile, che all’interno di un parco pubblico, il secondo più grande di Roma dopo Villa Pamphilj, ci si possa costruire una casa sull’albero in totale mancanza di controlli. Non che nei 180 ettari di verde manchino gli insediamenti abusivi, ma la variante aerea è di sicuro una novità. L’audace inquilino è stato subito ribattezzato «il Barone rampante», come il protagonista del romanzo di Italo Calvino. E chissà che, da novello eremita, non si sia rintanato tra i rami per ritagliarsi un angolo di pace lontano dal caos della vita moderna. Ipotesi che, poco importa se plausibile o del tutto fantasiosa, potrebbe ispirare una nuova storia di Niccolò Ammaniti (lo scrittore ha ambientato a Villa Ada Che la festa cominci).
Mentre si moltiplicano le congetture, tra ispezioni alla Sherlock Holmes e leggende metropolitane, non è la prima volta che a Roma ci s’imbatte in situazioni simili. Una decina di anni fa, nella cavità di un grosso platano lungo la ciclabile sotto Ponte Milvio, vicino alla Torretta, si era sistemata una hippie senza fissa dimora: Eva, originaria di Israele, vagabonda dall’età di 15 anni. Ginnastica, preghiera ed elemosina i suoi rituali quotidiani.