Tyson, il talento e il riscatto sul ring di Torbella
Alaoma, 18 anni, talento del pugilato e protagonista del corto che ha vinto a Venezia
«Quando cresci a Tor Bella Monaca, o rubi o ti fai. Io, però, di certa gente non voglio saperne, né dei ladri né dei tossici. Puoi anche spacciare, certo. Diversi miei amici spacciano. Hanno bisogno di soldi, nelle periferie delle grandi città funziona così. Ovunque, non solo a Roma. Ti immagini pieno di lustrini e seduto su una Ferrari, e allora non hai tante alternative: ti danno la droga e la vendi. Io ho trovato questa, di strade: il pugilato. È la mia passione, la mia ragione di vita. Se non avessi avuto i guantoni, avrei preso una brutta strada. Ora invece quegli stessi privilegi voglio conquistarmeli da solo, con le mie mani, combattendo sul ring».
Su Tyson Alaoma, diciotto anni, hanno girato un cortometraggio che è stato premiato alla recente Mostra del cinema di Venezia: anche così è diventato famoso, almeno un po’.
Si allena in un garage di Torre Angela: c’è la rampa e in fondo, dove dovresti trovare le macchine, c’è gente di ogni età che corre, saltella e si prende a pugni.
C’è anche il ring, ovvio. Non lo diresti, ma è qui che crescono i gioielli del pugilato italiano: questi ragazzi hanno vinto già quattro medaglie agli ultimi campionati europei, una d’argento e tre di bronzo. Molti di loro hanno storie speciali.
Tyson, di lei si è cominciato a parlare perché non le volevano dare la cittadinanza: la sua carriera era bloccata.
«Non mi consideravano italiano benché fossi nato a Roma perché i miei genitori, Johnson e Patience, sono nigeriani. Così non potevo essere convocato in nazionale. Ho buttato un anno, per questo motivo, e ancora mi girano le scatole. Ho anche pensato di gareggiare per la Nigeria, mi stavano costringendo a farlo. Poi ho compiuto gli anni e la situazione si è sistemata. Successivamente al campionato europeo, a Roseto degli Abruzzi, ho vinto la medaglia di bronzo. Non ho dimenticato, però».
Non tutti si sono schierati dalla sua parte, in quel periodo di attesa.
«Non appena la mia vicenda è finita su Internet, e si parlava di ius soli e cose del genere, sono stato coperto di insulti. Su Instagram la gente mi scriveva di tutto: negro di m..., vattene dall’Italia, non ti vogliamo. Leggevo con i miei amici e ridevamo assieme: è gente che parla senza riflettere, non sa ciò che dice, sono ignoranti. Dovrebbero usare i social per altre faccende, positive. Io, per esempio, ho postato il video di un mio incontro e un maestro inglese ha visto e apprezzato: mi ha invitato a Londra, sono andato ad allenarmi con lui».
Alla Mostra del cinema di Venezia hanno raccontato la sua storia, con successo. Non le è venuto in mente di fare l’attore?
«Ma io non ho recitato: è tutta realtà. E comunque non mi è piaciuto come si sono comportati quelli che hanno girato il cortometraggio con me e con il mio maestro. Abbiamo aperto loro le porte, li abbiamo tenuti in palestra per giorni e giorni, abbiamo spalancato le nostre case. Tutto senza chiedere un soldo. E poi, quando c’è stato da raccogliere l’applauso, a sfilare è andato solo il regista, Claudio Casale. Ma come, non poteva portare anche noi? Solamente per dire: eccoli, sono loro quelli che avete visto sullo schermo. Ci sono rimasto malissimo perché avevano giurato che saremmo andati assieme. Ci hanno usato. Eppure per noi sarebbe stato importante, qui fatichiamo per pochi euro, magari a Venezia avremmo trovato uno sponsor».
Un pugile che si chiama Tyson: un caso?
«Quando sono nato, diciotto anni fa, in Italia c’era Mike Tyson. I miei genitori l’hanno visto in televisione e sono rimasti colpiti. Pesavo cinque chili, un neonato gigante: chiamiamolo come lui, hanno detto, chiamiamolo Tyson. Forse era un segno del destino, eppure da bambino anch’io ho giocato a pallone. Come tutti. Non mi piaceva, però. Così a tredici anni sono venuto qui, in questa palestra, la Roma boxe Torre Angela, e ho capito cosa volevo dalla vita. Sei tu contro un avversario, è il tuo sacrificio contro il suo. Chi ha lavorato di più e ha più talento vince. Certo, conta anche l’allenatore, il maestro: il mio, Alessandro Elmoeti, è speciale».
Come immagina il suo futuro?
«Sul ring. Mi sono preso un campionato italiano, a novembre ne vincerò un altro: non è spocchia, sono sicuro che accadrà. E poi me ne andrò: da Tor Bella Monaca, da Roma, dall’Italia. Diventerò campione del mondo ma lo farò all’estero perché tutto è più organizzato e facile. A maggior ragione per uno come me. Uno nero, intendo».
Perché in Italia ha meno possibilità?
«Non so se qui ci sia razzismo, di sicuro all’estero il rapporto tra le persone è diverso. Ho viaggiato, sono stato in Inghilterra ad esempio, e là è un altro mondo. Per questo la mia carriera proseguirà lontano. Poi sono il primo a rendermi conto che è difficile gestire tutti i clandestini che arrivano, solo che a quelli promettono il paradiso e quelli scappano dai loro paesi. L’Italia, però, non è il paradiso. Non per tutti, almeno: lo è per chi ha i soldi».
La scuola invece l’ha mollata?
«Mi sono appena diplomato in amministrazione, finanza e marketing a Rebibbia, vicino a casa. Ora, però, penso soltanto al pugilato. Voglio diventare un campione. Poi, a cinquant’anni, tornerò a Tor Bella Monaca, dove sono cresciuto e dov’è la casa dei miei genitori. E la arrederò in un modo meraviglioso, con marmi splendidi. Fuori, però, resterà così com’è: una casa di Tor Bella Monaca».
Tyson/1
Quelli che hanno girato il film si sono comportati malissimo: noi abbiamo aperto le nostre case e loro nemmeno ci hanno invitato a Venezia
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Tyson/2
A novembre un altro titolo e poi via dall’Italia. Diventerò campione del mondo all’estero, dove tutto è più facile per un nero come me