«Migrazione urbana favorita dagli sgomberi»
«Gli sgomberi incoraggiano solo la migrazione umana urbana da un quartiere a un altro». Commenta così don Benoni Ambarus, neo direttore della Caritas diocesana di Roma, gli ultimi interventi delle forze dell’ordine, ma ha già in mente un piano per questa emergenza.
«Gli sgomberi non sono la soluzione. Capisco che coniugare le esigenze di giustizia, legalità e accoglienza non sia semplice, ma in questo modo si incoraggia solo la migrazione umana urbana, si decontestualizzano le persone. Ci vuole invece rispetto per la dignità di chi non ha una casa, e anche da parte nostra, se gli strumenti a disposizione non ci sono, o sono pochi, troviamoceli da soli. Coinvolgiamo i costruttori, ad esempio: l’edilizia popolare. Se questa è un’emergenza, tutti devono collaborare. Penso al numero di abitazioni vuote: una grande azione su questo punto potrebbe essere una vera e solida rivoluzione. E risoluzione». Si è insediato solo a settembre, ma don Benoni Ambarus, neo direttore della Caritas diocesana di Roma, ha già in mente un piano per affrontare l’esodo cittadino, da un quartiere all’altro, di migliaia di persone che vivono fra favelas e palazzi occupati. «Don Ben», come è più conosciuto fra le chiese e i fedeli di Roma, è nato in Romania. È stato vice parroco a Giardinetti e poi parroco a Prima Porta. Conosce bene la periferia.
In cosa consiste il suo piano?
«Abbiamo avviato un tavolo di riflessione con altre organizzazioni che assistono le persone bisognose, penso ad esempio al Centro Astalli, per trovare una soluzione, senza avere però la pretesa che sia quella giusta. Non abbiamo la palla di vetro, ma se dobbiamo muoverci, dobbiamo farlo prima sapendo cosa andiamo a fare per non peggiorare la situazione».
Dite no, quindi, agli sgomberi?
«Secondo noi così si sviluppa, si incoraggia la migrazione urbana. La città diventa una giungla, non ci si capisce più niente. Gli sgomberi senza soluzioni alternative non risolvono da soli il problema, semmai lo peggiorano».
E allora?
«Mi ha colpito la dichiarazione dei vescovi irlandesi che a inizio ottobre hanno detto che “la casa non è un bisogno essenziale, ma un diritto fondamentale dell’essere umano”. È un passaggio storico: da bisogno a diritto. Per questo serve un progetto complessivo. Adesso è come se per ristrutturare un grande edificio si facessero solo piccole parti per volta. Serve una visione d’insieme, altrimenti si fanno danni e si spendono soldi inutilmente. Questa è un’emergenza che non passerà, che da sola non si risolverà. E così quella ristrutturazione non sarà mai completata».
Ma spesso chi viene sgomberato non accetta l’accoglienza nelle strutture messe a disposizione dal Comune...
«E per la verità nemmeno la nostra, ce ne siamo accorti tante volte. È una questione di diffidenza, quando non di sfiducia: sanno che per loro ci sono solo soluzioni provvisorie».
La presenza di 218 bivacchi grandi e piccoli dimostra che il fenomeno è molto esteso.
«Parlate di 218 bivacchi, ma solo a Ostia l’anno scorso ne abbiamo individuati oltre 100. Secondo me, la realtà è addirittura peggiore: siamo in una fase di pre-bomba sociale. Ma chi ha bisogno preferisce restare nell’equilibrio precario che si è ritagliato nelle tendopoli dove rimane nell’ombra pensando che se dovesse uscire fuori sarebbe un problema per la collettività. Ci sono storie drammatiche, da rabbrividire, ma per loro è meglio tenere i riflettori spenti». Ma così si può andare avanti?
«No di certo: non bisogna accontentarsi, rassegnarsi che le cose non cambieranno mai. Bisogna invece cominciare a sognare in grande, a chiamare tutte le realtà per trovare una soluzione definitiva. Appena sono arrivato alla Caritas e ho capito cosa stava succedendo in tutta Roma, ho chiesto ai miei collaboratori: “Cosa facciamo?”. E mi sono tornate in mente quelle famiglie che avevamo assistito a Santi Apostoli: quasi tutte alla fine si sono dovute arrangiare per conto loro. Dobbiamo cominciare a smuovere le acque, affinché alle parole finalmente seguano i fatti».