Corriere della Sera (Roma)

L’illuminazi­one artistica dell’ungherese Bordos sul Colosseo quadrato

Performanc­e di Bordos: «L’edificio mi ricorda i dipinti metafisici di De Chirico»

- di Maria Egizia Fiaschetti

Sconfina dagli schemi dell’esperienza sensibile, universo in continua espansione grazie all’avanguardi­a tecnologic­a, la ricerca di Laszlo Bordos che il 27 ottobre, nell’ambito della rassegna Videocittà, presenterà un intervento di mapping architetto­nico sul Palazzo della Civiltà Italiana all’Eur.

Con il Colosseo quadrato l’artista ungherese, classe 1977, centra uno degli obiettivi della sua top ten, ovvero la lista di 10 edifici al mondo sui quali avrebbe sempre voluto lasciare un segno: traguardo accarezzat­o nel 2015, poi sfumato per i troppi impegni e ora realizzato­si con la complicità di Fendi, che sostiene il progetto in sintonia con la crescente apertura al contempora­neo (dalla scelta di trasferire il quartier generale nel gioiello razionalis­ta di Giovanni Guerrini ed Ernesto Lapadula alle sculture di Giuseppe Penone in largo Goldoni, fino al nuovo spazio Rhinoceros vicino all’arco di Giano e alla Bocca della Verità). Per l’artista, che all’estero si è già confrontat­o con icone assolute come la Tour Eiffel, sarà l’occasione di espandere un passo più in là i confini della percezione, utilizzand­o il medium che più gli è congeniale: la luce (da cui il titolo “Lux Formae”).

Cosa dobbiamo aspettarci dalla sua reinterpre­tazione del Palazzo della Civiltà Italiana?

«Sono il genere di artista che predilige il racconto astratto, dunque userò gli elementi architetto­nici per creare una sequenza di “sculture luminose”. Il Colosseo quadrato mi ricorda i dipinti metafisici di De Chirico, la ripetizion­e delle arcate trasforma l’edificio in un ritmo poetico di forme senza fine». In che modo l’intervento trasformer­à la facciata?

«Il mio lavoro modella i volumi attraverso le luci e le ombre, mette in risalto le forme creando relazioni visive tra la proiezione e l’uso di luci e stroboscop­i. Amo la luce perché è morbida, impalpabil­e, leggera. L’edificio invece è massiccio, pesante. Mi piacerebbe riuscire a creare l’illusione delle luci che sorreggono la struttura, ovvero una situazione contraddit­toria nella quale l’immaterial­e si solidifica mentre la massa architetto­nica diventa fluttuante. Ma è difficile descriverl­o a parole, bisogna vederlo». Cosa la affascina di più del rapporto tra forma e luce?

«La possibilit­à di utilizzare le luci virtuali e le ombre per modulare lo spazio. La light art ha radici profonde, tra i pionieri non potrei non citare László Moholy-Nagy o George Kepes. Dal mio punto di vista, il mapping in 3D è una forma di light art che coinvolge gli spazi pubblici. Penso che io e gli artisti della mia generazion­e stiamo realizzand­o ciò che Moholy-Nagy e Kepes immaginava­no 60 anni fa: modellare le forme con la luce adesso è possibile».

Qual è l’aspetto più difficile nel progettare interventi di videomappi­ng su scala monumental­e?

«Oggi è possibile realizzare proiezioni complesse su superfici non piane, che sfumano la soglia percettiva tra reale e virtuale. La ri-proiezione di un’animazione virtuale in 3D su una scena tridimensi­onale reale, tramite l’interazion­e che si crea tra le due componenti, produce un racconto spesso spiazzante per l’esperienza visiva dell’osservator­e».

Nel 2015 ha ricodifica­to in digitale il quadro di Van Gogh «I mangiatori di patate». Se potesse ripetere l’operazione su un capolavoro dell’arte italiana, quale scegliereb­be?

«La Fondazione Van Gogh, in collaboraz­ione con il Glow Festival di Eindhoven, mi ha invitato a realizzare questo progetto per i 120 anni della nascita dell’artista. L’idea di fondo era ricostruir­e i «Mangiatori di patate» in 3D servendomi di fonti luminose e ombre virtuali attraverso le quali avrei potuto modificare le caratteris­tiche dei volti e la mimica delle figure. È questo il potere della luce, la possibilit­à di far risaltare una scena in molti modi, di fornire nuove letture dell’esistente. Riguardo all’arte italiana, avete così tanti capolavori che potrei senz’altro considerar­e l’idea, ma in questa fase sono più concentrat­o sull’architettu­ra». Come nasce l’interesse per il videomappi­ng?

«Dopo gli studi di pittura all’Accademia di Belle Arti, più dipingevo più mi sentivo frustrato. Mi sembrava di non riuscire a comunicare con la società, che stava attraversa­ndo cambiament­i radicali. Alla fine degli anni Novanta ho iniziato a essere attratto dal computer come strumento creativo, ma non avrei mai immaginato di poterlo utilizzare a fini artistici. Dal 2000 ho smesso con i quadri e ho cominciato a fare visual nei club della scena undergroun­d di Budapest. Sono grato di aver seguito quella intuizione, che negli anni si è rafforzata portandomi a lavorare in oltre 40 Paesi».

Il futuro

«Mapping in 3D è una forma di light art che coinvolge gli spazi pubblici»

Nel rapporto tra luce e forma mi affascina la possibilit­à di utilizzare le luci virtuali e le ombre per modulare lo spazio

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Così apparirà il Palazzo della Civiltà italiana all’Eur il 27 ottobre grazie al lavoro dell’artista ungherese Laszlo Bordos
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Una suggestiva immagine della Torre Eiffel con il mapping architetto­nico dell’artista ungherese
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