Lottando fra blocchi di cemento, i danzatori borderline di Shechter
Grand Finale da stasera all’Olimpico per il festival Romaeuropa
«Un racconto suggestivo e poetico attorno alla brutalità, alla corruzione, alla violenza che caratterizzano tutte le società, non solo quella israeliana»: anche corpi immobili, in un sonno che sa di morte, in Grand Finale, del coreografo Hofesh Shechter, da stasera a venerdì al Teatro Olimpico per il festival Romaeuropa.
Un talento coreografico che si riconosce «parte della dinastia di Marta Graham, di Ohad Naharin con la Batsheva dance company, una ricca sintassi contemporanea che si alimenta di secoli di danza popolare esplosa nei kibbutz con lo scopo di sentirsi parte di una comunità, celebrare la vita». Anche se la situazione politica in Israele, Paese d’origine di Shechter, non è affrontata nello spettacolo: «Nell’immaginario Gerusalemme è una città frammentata, ma la divisione è purtroppo un problema di questi anni, ovunque. Il mondo va verso il collasso. Il petrolio,
l’acqua, le risorse naturali stanno per esaurirsi. La fine si avvicina. Eppure si sprigiona, da quella sensazione funesta, un’energia vitale e combattiva. È un paradosso. Le persone reagiscono con una furia liberatoria alla prospettiva dell’Apocalisse. Si ribellano al destino sentendosi vive, quasi eccitate. Ho lavorato sull’immagine del corpo per porre domande all’osservatore. Non è compito del coreografo fornire le risposte».
Dieci danzatori «agiscono» su una colonna sonora composta dallo stesso Shechter, ed eseguita dal vivo da sei musicisti: «Un misto di diversi stili — spiega il coreografo —, elettronica, percussioni, archi, folk di matrice Est europea. La partitura continuamente rimanda alle atmosfere e all’energia che si liberano sul palcoscenico, collabora al processo creativo. Solo un valzer non è nostro, un passaggio dall’operetta La vedova allegra di Franz Lehár». Precisa: «Non esiste un’unica linea drammaturgica, non una trama teatrale, ma una serie di ispirazioni come le grandi pareti simili a lastre di cemento che si muovono su ruote sistemate alla base, ideate da Tom Scutt. Divisori che ridefiniscono lo spazio, creando insieme alle luci effetti teatrali. A questo espediente è affidata la rappresentazione scenografica, per il resto molto sobria. A parlare in Grand Finale sono i corpi, e la musica».
Descrive: «Per la prima volta in un mio balletto i danzatori si toccano, creano reti, intrecciano relazioni e entrano fra loro in contatto. Ridefiniscono lo spazio, che a sua volta li influenza, con quello slittamento continuo. Ci viene trasmessa la sensazione che tutto stia andando fuori controllo. Un precipizio ricorrente, perché la fine si ripete, ciclicamente».
Qual è dunque il nostro ruolo, da spettatori? «Pensando al momento di crisi — riflette — nessuno si percepisce come parte attiva. Ci sentiamo solamente osservatori. Anche durante lo spettacolo, non dobbiamo far altro che lasciarci trasportare dalle immagini e dalle emozioni, abbandonarci alla provocazione, al divertimento e al senso di panico. Al caos. Semplici partecipanti. Ma in realtà sono convinto che ognuno sia responsabile, in questa vita, a suo modo».