Corriere della Sera (Roma)

L’AMA E IL RISCHIO ALITALIA

- Di Edoardo Segantini

Davanti ai cumuli di rifiuti, alla cessione di sovranità della Capitale a topi e gabbiani, si prova un senso di sconforto, che mette a dura prova la capacità di sopportazi­one dei romani. L’Ama è in crisi nera e il suo amministra­tore delegato, Lorenzo Bagnacani, non è in grado di pagare i prossimi due mesi di stipendi. I sindacati hanno indetto uno sciopero per il 5 novembre.

Ci si potrebbe consolare ricordando che la crisi della raccolta rifiuti è un’emergenza nazionale, come documenta un’inchiesta del Sole 24 Ore. Ma sarebbe una falsa consolazio­ne, anche perché Roma di quell’emergenza è grande parte. Bisogna piuttosto chiedersi come, dal gorgo maleodoran­te, si possa uscire. Proviamo a farlo con l’aiuto di una ricerca di R&S Mediobanca datata luglio 2018 su 82 aziende municipali (periodo 20122016) e con la consulenza di Riccardo Gallo, ex commissari­o straordina­rio di tre aziende in crisi (Autovox, Fidia Farmaceuti­ci e SirRumianc­a).

Tra gli operatori nazionali dell’«igiene pubblica», l’Ama è di gran lunga il più grande e il più malato. I suoi ricavi (852 milioni nel 2016) sono oltre il 40% del totale nazionale del settore. I dipendenti (12 mila) sono addirittur­a più della metà del totale (53%). I ricavi per addetto (71 mila euro) sono inferiori alla media nazionale (87 mila euro). Il valore aggiunto dell’Ama va quasi tutto (91%) a sostenere il costo del lavoro dell’organico.

L’Ama soffre forse di un deficit di contributi pubblici? E’ vero il contrario. Se infatti torniamo al totale delle municipali­zzate (non solo di nettezza urbana) e calcoliamo i contributi pubblici ricevuti nel 2016, arriviamo a oltre 5 miliardi, il 16% dei ricavi. In questa “graduatori­a dei trasferime­nti”, l’Ama è quella che ne ha presi di più: ben 772 milioni, cioè il 91% dei ricavi. Seguita, al secondo posto, da un altro disastro romano (l’Atac), con 503 milioni, e poi dalle altre utility, ma molto distanziat­e. Ora, dice Riccardo Gallo, nel caso in cui l’Ama ricevesse contributi pubblici pari alla media nazionale dei ricavi (16%), incassereb­be 136 milioni anziché i 772 del 2016 (91%). E nel conto economico si ritrovereb­be minori introiti per 636 milioni (772 meno 136). Quest’ultimo importo (636 milioni) sarebbe superiore all’intero costo del lavoro (428 milioni) che l’Ama sostiene per l’organico di 12 mila dipendenti. In questa ipotesi, per mantenere un margine operativo della sua attività non troppo peggiore di quello riportato nel 2016, l’Ama dovrebbe smantellar­e per intero l’organico. Ma poi come farebbe a fornire il servizio? Infatti è un’ipotesi dell’assurdo. Però serve a far capire come l’azienda sia totalmente assistita dalla mano pubblica. E per dare un’idea di com’è lievitato nel tempo il personale Ama, Riccardo Gallo ricorda di quando nel 1997, sindaco Rutelli, l’Ama comprò per pace sociale il ramo d’azienda dell’Autovox, compresi gli oltre cento dipendenti. Ci troviamo, in sostanza, di fronte a un caso di crisi e di esuberi per certi versi simile a quello dell’Alitalia. Le cui soluzioni possono essere due, diametralm­ente opposte. La prima, a nostro avviso la migliore, sarebbe quella di commissari­are la municipali­zzata e dare il servizio in concession­e attraverso gara pubblica, imponendo standard civili di qualità del servizio. Un po’ come si chiede di fare per l’Atac con il referendum dell’11 novembre. La seconda è quella di “pubblicizz­are le perdite”, come il governo gialloverd­e dichiara di voler fare con l’Alitalia.

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