«Grand Finale», dinamismo e luci
«Grand Finale» del coreografo israeliano Hofesh Shechter, in scena all’Olimpico per Romaeuropa festival, si impone all’attenzione per due distinti elementi, quello dinamico e quello coloristico. Bisognerebbe forse aggiungere l’elemento musicale: vi sono, sempre in scena, sei musicisti, a volte in primo piano, a volte in posizione laterale e a volte quasi nascosti, laggiù, dietro una specie di quinta. Quinta? Ecco un termine, nella circostanza, improprio. È lo stesso Shechter a dire d’aver sognato la sua scenografia: elementi mobili, nel senso di «strutture simili a una città fatta di carta giapponese»: quinte solide, alte, imponenti, dunque; e fluide, che scorrono senza posa. Dietro e davanti queste strutture, e con esse, si condensa l’elemento dinamico: dieci ballerini possono slittare in ampiezza da uno stato di negatività assoluta a una ripresa, a un ricominciamento. Quattro di loro sollevano i corpi di altri quattro abbandonati a terra e tutti insieme riprendono la danza che inevitabilmente, fatalmente, condurrà al gran finale apocalittico (è il sentimento da cui tutto scaturisce). Ma si tratta anche di un sentimento cui non occorre prestare fede fino in fondo. In alcuni momenti la musica somiglia a quella dei western, nelle ultime, sentimentali inquadrature; e soprattutto il gioco delle luci (la parte più suggestiva dello spettacolo) raggiunge effetti abbaglianti o, all’opposto, commoventi: luci che piovono dall’alto o dai lati, gialle e scure, nere e rosse: luci e controluci.