Alberi e animali, il favoloso mondo di Gino Marotta
Dai primi lavori alle tele luminose, in mostra le opere dell’artista scomparso nel 2012
«Alla domanda “come è fatto il mondo”, un pittore può rispondere con la conoscenza e la competenza del linguaggio dei segni. Nessuno può affermare di conoscere qualcosa se non è in condizione di delinearne il profilo – scriveva Gino Marotta – e chi ha maggior pratica della forma sa quanto siano ambigue le modalità di rappresentazione di un’immagine». Così il mondo dell’artista molisano, scomparso nel 2012, in oltre sessant’anni di attività ha preso mano a mano la forma e i colori della sua inappagabile curiosità, e oggi (fino al 15 febbraio) trova spazio alla galleria Erica Ravenna Arte Contemporanea nella mostra Il favoloso mondo di Gino Marotta, a cura di Laura Cherubini ed Erica Ravenna. Favoloso davvero, popolato com’è dagli iconici rinoceronti rossi, i dromedari blu e le giraffe verdi in metacrilato, un materiale che nella sua instancabile esplorazione del rapporto tra natura e artificio ha rappresentato la sintesi di uno sguardo ironico, critico ma perfettamente al passo con la società moderna.
La scelta, fin dagli esordi negli anni Cinquanta, di raccontare il reale cavalcando i linguaggi industriali è partita con l’uso della fiamma ossidrica nei pesanti «piombi» e nei «bandoni» di ferro, per approdare alla fluorescenza dei neon e alla leggerezza delle nuove plastiche già un decennio dopo. Con il plexiglas ha rimodellato il concetto di scultura. Le sue figure «naturali» — palme, siepi, fenicotteri e altri animali — sono diventate esageratamente sgargianti, colorate oltre natura, «artificiali» per dirla con l’artista. E la loro tridimensionalità ha iniziato a reggersi paradossalmente su scheletri di lastre sottili e trasparenti, in cui l’immateriale — ossia la luce riflessa — si è fatta materia rilasciando il sapore di un’apparizione fantastica.
L’esposizione in via Margutta raduna dai primi lavori alle tele luminose, fino alle opere più recenti di questo poeta del metacrilato immerso nel dualismo tra mimesi e immaginazione. Per una personale in cui le curatrici ricostruiscono non solo l’itinerario puntuale dell’indagine artistica ma anche un ritratto di scultore, pittore e designer fondamentale per la sua generazione. Quella di Burri e Fontana, per citare alcuni contemporanei, poi Ceroli, Pascali e Kounellis (con cui espose al Louvre nel 1969). Ma anche di Carmelo Bene, col quale lavorò nel cinema e in teatro alle scenografie di Salomè, Nostra signora dei turchi e Hommelette for Hamlet (guadagnando il Premio Ubu nel 1988). Sempre mosso, come dichiarava lui stesso, da «un’incontrollata curiosità».