Paolo Pellegrin, un’antologia in 150 fotografie
Maxxi Un’antologica con 150 immagini, a cura di Germano Celant, ripercorre la carriera del fotoreporter: guerre, natura e crisi umanitarie
Ci sono voluti due anni — passati a sfogliare il suo enorme archivio fotografico, immagine dopo immagine, tra appunti, schizzi e pensieri — per scegliere le oltre 150 foto esposte al Maxxi in occasione di Paolo Pellegrin. Un’antologia, mostra-ritratto della straordinaria carriera del fotografo romano al via oggi a cura di Germano Celant (fino al 10 marzo).
«È un distillato del lavoro fatto negli ultimi vent’anni — spiega Pellegrin — un’esposizione frutto di un lungo processo di esclusione, in cui gli scatti non sono stati scelti dal mio catalogo ma scartati pian piano, come foglie che cadono spontaneamente da un albero, fino a raggiungere questa selezione “naturale” che rappresenta l’essenza della mia fotografia». Ossia con l’obiettivo in prima linea nelle zone di guerra, immerso nelle crisi umanitarie più feroci e in dialogo con la natura in balìa dei cambiamenti climatici. Dal Kosovo alla Cambogia, dall’Iraq a Gaza, da El Paso all’Antartide in missione con Nasa. Guadagnandosi dieci World Press Photo Award, la Robert Capa Gold Medal, il Premio Eugene Smith, la Leica Medal of Excellence, l’Olivier Rebbot for Best Feature Photography, la carica di Ambassador di Canon, nonché quella di membro di Magnum Photos dal 2005.
Un medagliere impressionante, tanto più quando si scopre che la vocazione è arrivata «tardi». «Studiavo architettura, giocavo a scacchi, per anni non ho avuto le idee chiare — ricorda il fotoreporter — così quando ho deciso di dedicarmi a questo mestiere ero già grande, ma una volta imboccata la strada non mi sono più fermato e sono stato molto prolifico. Con questa mostra mi sono fermato per la prima volta a osservare il mio lavoro, ripercorrendolo e rintracciandone, a volte anche con stupore, i punti fermi che lo hanno attraversato».
Da qui il titolo: Un’antologia, che si apre con l’imponente collage d’immagini scattate nel 2016 durante la battaglia di Mosul, in un doloroso bianco e nero tra corpi senza vita e lo strazio di uomini disorientati nella città soffocata dal fumo delle esplosioni. Le foto, circa una trentina, stanno l’una accanto all’altra in una sorta d’istantanea corale scelta dal fotografo come metafora di ogni conflitto. Con l’effetto di una Guernica contemporanea che porta dritto al cuore della sua poetica. «Il reportage per Pellegrin non è un’operazione distaccata e fredda — commenta Celant — ma una manifestazione dell’interpretazione personale che si alimenta di estetica e di espressività. Sente la necessità di condividere, con la sua presenza e testimonianza, la responsabilità della nostra cultura verso questi eventi drammatici».
Il percorso, che accoglie numerosi inediti e alcuni contributi video, prosegue con il racconto di un’umanità sofferente, letta nei volti dei rifugiati a Lesbo, stremati dal caldo e dalla sete in attesa di essere registrati, o nelle gigantografie dei prigionieri dell’Isis colti un attimo prima di essere processati nel Kurdistan iracheno. «Dolore ma non solo — precisa Pellegrin — perché fotografando i conflitti cerco di fermare l’intima bellezza dell’essere umano nell’espressione delle sue emozioni più profonde, come contrappunto alla tragedia, per riflettere la complessità della vita umana su questo pianeta».
E alle immagini del pianeta è riservata l’ultima parte della mostra, con una galleria di scatti in cui la natura si rivela in tutta la sua forza. Infine un corridoio che proietta dietro le quinte della ricerca visiva di Pellegrin, tra i suoi disegni, taccuini e piccole foto che svelano la complessità di quel processo creativo che viene prima di ogni suo clic.
Occhio testimone Kosovo, Cambogia, Iraq Gaza, Antartide... guadagnando dieci World Press Photo