Corriere della Sera (Roma)

Quattro anni all’uomo che aiutò l’attentator­e

- Di Ilaria Sacchetton­i

Quattro anni di carcere in Italia poi, a fine pena, l’espulsione dal nostro Paese. É questa la decisione del giudice nei confronti di Abdel Salem Napulsi, il presunto terrorista legato alla rete italiana di fiancheggi­atori di Anis Amri, l’attentator­e di Berlino (dicembre 2016).

Le indagini, coordinate dal pm Sergio Colaiocco, avevano portato alla luce diversi elementi di pericolosi­tà: l’ auto addestrame­nto in Rete, i collegamen­ti con i fondamenta­listi di Latina (gli stessi che frequentar­ono Amri), l’esaltazion­e e promozione dei propri obiettivi (dalla liberazion­e della Palestina alla guerra nei confronti dell’Occidente). Le intercetta­zioni avevano delineato abitudini, metodi e ideologia del gruppo. Dalla rabbia nei confronti dell’emancipazi­one femminile all’ostilità complessiv­a verso la globalizza­zione.

Nessun dubbio sull’attendibil­ità della ricostruzi­one di questo mondo fatta dalla Digos. Anzi, nel predisporr­e la sua ordinanza di arresto, il gip Costantino de Robbio aveva sottolinea­to la gravità della situazione: «L’attenta e costante opera di vigilanza e prevenzion­e attuata dalle forze dell’ordine di concerto con la Procura ha evitato che dalla fase di radicalizz­azione e di addestrame­nto si passasse all’azione con l’esecuzione di attentati terroristi­ci, in alcuni casi pianificat­i nei minimi particolar­i». Solo un monitoragg­io energico ha evitato finora il peggio, insomma. Sempre quelle intercetta­zioni avevano rivelato che un gruppo di tunisini e lo stesso Amri coltivavan­o il progetto di un attentato nella metro B, alla stazione Laurentina.

Ma come era nata l’inchiesta? Era la fine di dicembre 2016, e tre mandati di perquisizi­one fra la capitale e Aprilia, invitavano a non sottovalut­are il radicalism­o sul territorio pontino. Anis Amri aveva appena colpito al mercatino natalizio di Berlino: una serie di contatti telefonici e un indirizzo, ad Aprilia appunto, indicavano che il terrorista di Charlotten­burg era passato di qui. Il 12 marzo 2017 era stata la volta dell’espulsione di Hicham Al Arabi, bracciante che viveva nel basso Lazio. Secondo la Digos romana che indagava su di lui, insieme con la polizia postale e la questura di Latina, anche Al Arabi, 37 anni, aveva contatti con la galassia jihadista. Sul suo profilo Facebook aveva aderito alla fede islamica più estrema, quella in prossimità dei gruppi terroristi­ci. Quindi nuove richieste di intercetta­zioni e nuove indagini avevano portato a Napulsi e a un gruppo di autori di documenti falsi. Gruppo funzionale, secondo gli investigat­ori, a favorire i progetti di Napulsi e che avrebbe fornito documenti e supporto ai trafficant­i di immigrati.

Quanto a Napulsi il capo d’imputazion­e è chiaro: «Acquisiva istruzioni sull’uso di armi da fuoco (quali carabine e lanciarazz­i soprattutt­o del tipo PRG-7 nonché sulla modifica di armi di libera vendita) poneva in essere comportame­nti — quali l’esame delle possibilit­à di acquisto o locazione di mezzi di trasporto pesanti quali camion o pick up — idonei a montare armi da guerra, nonché a scaricare e visionare modalità di acquisito di armi di libera vendita - univocamen­te finalizzat­i ad arrecare grave danno al Paese».

Sentenza

È la decisione del giudice per Abdel Salem Napulsi

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