Motta: la musica in viaggio verso il Niger
Domani all’Auditorium con Les Filles des Illighadad
«Il giorno più bello della mia vita». Così Francesco Motta descrive il primo incontro, il primo set di prove con Les Filles des Illighadad. Trio di ragazze cresciute in un piccolo villaggio del Niger, accompagnando feste di piazza, matrimoni, funerali. La musica come collante della comunità. Le guida Fatou Seidi Ghali, cantante, performer, una delle poche chitarriste Tuareg in circolazione. «Sono affascinato dal loop, dalla ripetizione, dalle percussioni, dalla spiritualità che affiora nel mantra - racconta Motta Ovviamente per loro tutto questo è normale, è popolare. Ma io ne sono rimasto veramente colpito. Non so il francese, abbiamo iniziato a suonare, come una jam session. E anche sul palco ci sarà molta improvvisazione. Sembrerà una banalità, ma comunicare attraverso la musica, anche venendo da posti assolutamente, completamente differenti, ho scoperto essere una cosa di una forza incredibile».
Il palco di cui parla Francesco è quello dell’Auditorium. Domani sera, in sala Sinopoli, la tappa romana di quattro date che Motta si è regalato, in un 2018 già ricco di esibizioni live e soddisfazioni, dopo l’uscita di Vivere o morire, Targa Tenco come miglior album dell’anno. Come le ha scoperte, queste meravigliose figlie del Niger? Galeotta fu Berlino: «Ero entrato in un negozio di musica e il proprietario, tedesco, mi ha riconosciuto perché ha una ragazza di Firenze. Ci siamo messi un po’ a chiacchierare e mi ha raccontato di una festa africana che si sarebbe tenuta quella sera, immaginando potesse piacermi. Ho seguito il suo consiglio, ho visto il loro concerto ed è diventato il mio gruppo preferito al mondo». Addirittura: «Sì, forse sì». Folgorato. «Completamente». E grazie ad altre coincidenze
❞ Questa mia nuova esperienza è nutriente. E anche parecchio divertente
Forse è banale, ma comunicare attraverso la musica è di una forza incredibile
«siamo riusciti a mettere su questa cosa. Che mi sta dando un’energia pazzesca. Avere a che fare con persone diverse da te è sempre un’esperienza nutriente. E in questo caso, divertente, anche».
Una passione, quella per la musica africana, sbocciata anni fa a un concerto dei Tinariwen. E a proposito di negozi di musica, «lo scorso anno, in Marocco, ho scovato degli strumenti, poi utilizzati in Vivere o morire. A modo mio, ovviamente. Non facendo finta
di essere di Marrakech o Timbuctù. Ma già utilizzare strumenti cordofoni e percussioni come un darbuka con pelle di non so quale pesce, è stato molto stimolante. In studio ha lavorato con me anche Mauro Refosco, abbiamo registrato a New York ma lui è brasiliano e ci sono anche influenze di quel tipo lì».
Spettacolo romano diviso in tre set: «A loro in primo tempo, noi per secondi, poi l’improvvisazione finale insieme: sappiamo quando iniziamo,
non quando finiremo». Sono Les Filles a venire sul terreno di Motta o viceversa? «All’inizio forse siamo stati più noi ad avvicinarci a loro, anche perché tutto è partito da me e sentivo una certa responsabilità di spiegarmi. Poi a un certo punto questo flusso di comunicazione si è aperto, un dare e ricevere costantemente». L‘idea di essere invitato a suonare in Niger? «Ah, mi piacerebbe tantissimo…».