Plagio e condanna, va in scena «Il caso Braibanti»
Da oggi a domenica al teatro Villa Torlonia una pièce sull’accusa di plagio allo scrittore
L’altro Sessantotto, non quello dei giovani rivoluzionari ma quello di una sentenza che — nella sua applicazione della legge sul plagio scritta durante il fascismo — ha il sapore reazionario. È il Sessantotto del caso giudiziario Braibanti, tra i più discussi del Novecento italiano, in cui lo scrittore ex partigiano Aldo Braibanti venne accusato di aver «assoggettato fisicamente e psichicamente» il ventunenne Giovanni Sanfratello e, per questo, condannato alla galera.
Una sentenza unica nella storia — abolita nel 1981 dalla Corte Costituzionale — che da stasera a domenica rivive sul palco del Teatro Torlonia con lo spettacolo Il caso Braibanti, scritto da Massimiliano Palmese e diretto da Giuseppe Marini nell’ambito della rassegna Garofano Verde, ideata e diretta da Rodolfo di Giammarco. Una restituzione del processo che scosse l’Italia e i suoi intellettuali, da Moravia alla Morante, e poi Eco, Pasolini, Maraini, Bellocchio e Carmelo Bene, che trent’anni dopo dirà: «Un fatto ignobile. Fu condannato per un reato mai tirato in ballo fino ad allora. Il plagio. Per giunta ai danni di un maggiorenne... Tutto è plagio, che scoperta! Qualunque soggetto pensante e parlante è quotidianamente sottoposto a plagio».
La realtà raccontata invece da Palmese è che Sanfratello, una volta maggiorenne, decise di seguire le proprie inclinazioni e vivere a Roma con Braibanti, fuggendo da una famiglia autoritaria e bigotta che piuttosto di accettarne l’omosessualità preferì sottoporlo a cure psichiatriche ed elettroshock.
«Nel testo c’è poco che non provenga direttamente dagli atti del processo — racconta l’autore — o da articoli di giornale con interviste ai protagonisti». Sono originali anche le lettere di Braibanti alla madre, per una pièce che bilancia satira di costume e dramma psicologico. «Gli interrogatori e le arringhe sono a tratti divertenti, mentre agghiaccianti le dichiarazioni omofobiche dei cosiddetti “periti” — aggiunge Palmese — per non parlare delle cartelle cliniche firmate dagli specialisti in malattie nervose». Così Marini sceglie due attori come Fabio Bussotti e Mauro Conte per accendere i riflettori su quella che definisce «una pagina oscura e indecente della nostra cultura e giustizia». «Ci tenevamo a ripercorrerla con un teatro civile e di narrazione in un’Italia col vizio della dimenticanza — conclude il regista — che ha bisogno invece di ricordare. Chi lo vedrà avrà la sensibilità per capire che c’è sempre, anche oggi, il rischio di grandi passi indietro rispetto alle libertà acquisite».