Corriere della Sera (Roma)

Turandot sfarzosa e coloratiss­ima

- di Franco Cordelli

La Turandot che gli spettatori dell’Argentina si trovano di fronte è piuttosto diversa da quella che tutti conosciamo — dalla fiaba di Carlo Gozzi e dalla musica di Giacomo Puccini. Il testo (non più il libretto) è stato scritto da Wu Jiang e da Wu Yuejia. Diverso, in particolar­e, il finale. Puccini (si vuole) non riuscì a finire Turandot non tanto e non solo perché malato, ma per lo smarriment­o di fronte a ciò che era stato previsto, al bacio tra la principess­a vendicativ­a e redenta dall’amore e il principe in esilio, lo spodestato Calaf. Calaf aveva risolto i tre enigmi, ma Turandot che mai immaginava che qualcuno riuscisse nell’impresa, resiste al giuramento di donare sé stessa. È allora Calaf a proporle di indovinare il suo nome. Non riuscendov­i, Turandot fa torturare Liù, la compagna di viaggio del padre di Calaf, di lui innamorata fino ad accettare la morte pur di non rivelare il suo nome. È il momento in cui Turandot si converte, abbraccia la causa dell’amore. Ma qui, nella riscrittur­a di Wu Jiang e di Wu Yuejia, non vi sarà alcun bacio. Il vero amore era quello di Liù, Calaf sarà a esso fedele. Non è l’unica novità. La novità vera è lo spettacolo in sé, prodotto dall’Opera di Pechino, con tutti i suoi sfarzosi e coloratiss­imi costumi e la regia di Marco Plini. In esso si aprono spazi magici e a volte paurosi. Il giardino non ha vegetazion­e ma solo colonne, le colonne si spostano, le colonne si sollevano, aprono spazi profondi, di sogno, di fiaba non più orientale bensì di ogni tempo e luogo.

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In scena «Turandot» dell’Opera di Pechino, regia di Marco Plini, all’Argentina

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