Turandot sfarzosa e coloratissima
La Turandot che gli spettatori dell’Argentina si trovano di fronte è piuttosto diversa da quella che tutti conosciamo — dalla fiaba di Carlo Gozzi e dalla musica di Giacomo Puccini. Il testo (non più il libretto) è stato scritto da Wu Jiang e da Wu Yuejia. Diverso, in particolare, il finale. Puccini (si vuole) non riuscì a finire Turandot non tanto e non solo perché malato, ma per lo smarrimento di fronte a ciò che era stato previsto, al bacio tra la principessa vendicativa e redenta dall’amore e il principe in esilio, lo spodestato Calaf. Calaf aveva risolto i tre enigmi, ma Turandot che mai immaginava che qualcuno riuscisse nell’impresa, resiste al giuramento di donare sé stessa. È allora Calaf a proporle di indovinare il suo nome. Non riuscendovi, Turandot fa torturare Liù, la compagna di viaggio del padre di Calaf, di lui innamorata fino ad accettare la morte pur di non rivelare il suo nome. È il momento in cui Turandot si converte, abbraccia la causa dell’amore. Ma qui, nella riscrittura di Wu Jiang e di Wu Yuejia, non vi sarà alcun bacio. Il vero amore era quello di Liù, Calaf sarà a esso fedele. Non è l’unica novità. La novità vera è lo spettacolo in sé, prodotto dall’Opera di Pechino, con tutti i suoi sfarzosi e coloratissimi costumi e la regia di Marco Plini. In esso si aprono spazi magici e a volte paurosi. Il giardino non ha vegetazione ma solo colonne, le colonne si spostano, le colonne si sollevano, aprono spazi profondi, di sogno, di fiaba non più orientale bensì di ogni tempo e luogo.