Corriere della Sera (Roma)

All’ergastolo ostastivo si laurea con 110 e lode

Rìgano, condanna per mafia e omicidio: «Faccio anche cose buone»

- Stefania Moretti

Si sentiva impacciato in quel completo blu con cravatta che non usa mai. Filippo Rìgano, 62 anni, da 27 in carcere, si è presentato mercoledì in commission­e di laurea al teatro di Rebibbia, i capelli bianchi e il vestito migliore. Il suo relatore Giovanni Guzzetta, docente di Diritto pubblico a Tor Vergata, gli ha chiesto il perché della sua tesi sull’ergastolo ostativo. «Perché sono un ergastolan­o ma, anche se non mi crederete, sono libero».

Ergastolo ostativo significa fine pena mai: niente permessi premio, condiziona­le, semilibert­à. A meno che il detenuto non collabori; una norma bocciata come incostituz­ionale proprio nel giorno della laurea di Rìgano. «La mancata collaboraz­ione con la giustizia – per la Consulta – non impedisce i permessi premio, purché ci siano elementi che escludono collegamen­ti con la criminalit­à». A sollevare il caso sono stati due ergastolan­i per mafia. Come Rìgano: siciliano di Acireale, entrato in carcere a 35 anni. Associazio­ne mafiosa, il pizzo ai commercian­ti, due omicidi da uomo del clan Santapaola, le vittime uccise a colpi di pistola nel 1985 e nel 1993. Rìgano organizza i delitti ma non è lui a sparare.

Dopo 27 anni in cella - unica uscita l’anno scorso, per assistere la madre malata - il neo-dottore scrive di sentirsi un «figliol prodigo»: ha sbagliato, ma con quegli errori fa i conti da 9.855 giorni. E «per ogni giorno si butta il sangue» in questo «surrogato della pena di morte» che per lui è l’ergastolo. «Evocare l’inferno non è esagerato», scrive: Una pena eterna non può essere che disumana». Ha avuto 851 milioni di secondi per pensare al suicidio, ma non l’ha fatto: «Il perché è nella mia speranza che, anche se tardi, l’Italia si conformi alla Costituzio­ne». A quell’articolo 27 che prevede pene umane e rieducativ­e.

Pagare è logico e ovvio, riconosce, ma non vuole pagare due volte, forzandosi a una collaboraz­ione che «in certi contesti equivale a mettere a rischio la vita propria e dei propri cari». Vent’anni a ricostruir­si «per dimostrare che ero in grado di fare delle cose buone». A Rebibbia studia, fa il manovale, frequenta i laboratori di «Nessuno tocchi Caino» e il teatro: recita sullo stesso palco dove si è laureato. A brindare con lui moglie e figlie, i compagni dell’Alta sicurezza, il Partito radicale, la sua tutor Marta Mengozzi e i colleghi che lo hanno seguito. Il garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasìa si congratula: «Aveva solo la seconda elementare». Ora è dottore in Legge con 110 e lode. E da mercoledì, dopo la decisione della Corte Costituzio­nale, può sperare che, forse, non morirà dentro il carcere.

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