All’ergastolo ostastivo si laurea con 110 e lode
Rìgano, condanna per mafia e omicidio: «Faccio anche cose buone»
Si sentiva impacciato in quel completo blu con cravatta che non usa mai. Filippo Rìgano, 62 anni, da 27 in carcere, si è presentato mercoledì in commissione di laurea al teatro di Rebibbia, i capelli bianchi e il vestito migliore. Il suo relatore Giovanni Guzzetta, docente di Diritto pubblico a Tor Vergata, gli ha chiesto il perché della sua tesi sull’ergastolo ostativo. «Perché sono un ergastolano ma, anche se non mi crederete, sono libero».
Ergastolo ostativo significa fine pena mai: niente permessi premio, condizionale, semilibertà. A meno che il detenuto non collabori; una norma bocciata come incostituzionale proprio nel giorno della laurea di Rìgano. «La mancata collaborazione con la giustizia – per la Consulta – non impedisce i permessi premio, purché ci siano elementi che escludono collegamenti con la criminalità». A sollevare il caso sono stati due ergastolani per mafia. Come Rìgano: siciliano di Acireale, entrato in carcere a 35 anni. Associazione mafiosa, il pizzo ai commercianti, due omicidi da uomo del clan Santapaola, le vittime uccise a colpi di pistola nel 1985 e nel 1993. Rìgano organizza i delitti ma non è lui a sparare.
Dopo 27 anni in cella - unica uscita l’anno scorso, per assistere la madre malata - il neo-dottore scrive di sentirsi un «figliol prodigo»: ha sbagliato, ma con quegli errori fa i conti da 9.855 giorni. E «per ogni giorno si butta il sangue» in questo «surrogato della pena di morte» che per lui è l’ergastolo. «Evocare l’inferno non è esagerato», scrive: Una pena eterna non può essere che disumana». Ha avuto 851 milioni di secondi per pensare al suicidio, ma non l’ha fatto: «Il perché è nella mia speranza che, anche se tardi, l’Italia si conformi alla Costituzione». A quell’articolo 27 che prevede pene umane e rieducative.
Pagare è logico e ovvio, riconosce, ma non vuole pagare due volte, forzandosi a una collaborazione che «in certi contesti equivale a mettere a rischio la vita propria e dei propri cari». Vent’anni a ricostruirsi «per dimostrare che ero in grado di fare delle cose buone». A Rebibbia studia, fa il manovale, frequenta i laboratori di «Nessuno tocchi Caino» e il teatro: recita sullo stesso palco dove si è laureato. A brindare con lui moglie e figlie, i compagni dell’Alta sicurezza, il Partito radicale, la sua tutor Marta Mengozzi e i colleghi che lo hanno seguito. Il garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasìa si congratula: «Aveva solo la seconda elementare». Ora è dottore in Legge con 110 e lode. E da mercoledì, dopo la decisione della Corte Costituzionale, può sperare che, forse, non morirà dentro il carcere.