Processo Cucchi a porte chiuse
In aula la testimonianza del carabiniere Schirone sul ruolo del generale Casarsa
In un’aula blindata dal timore del Covid 19, durante un’udienza alla quale, dunque, i giornalisti non possono essere presenti, viene ascoltato Pietro Schirone, carabiniere atipico in questa storia di silenzi e depistaggi. Perché Schirone, in servizio presso la compagnia Casilina, aveva ribadito nel corso del processo a carico di cinque colleghi accusati del pestaggio di Stefano Cucchi quanto già dichiarato ai pm di Roma nel 2009 e cioè che il ragazzo, fermato per possesso di droga, era stato pestato. E di avere raccontato quello a cui aveva assistito anche ai diretti superiori, senza nascondere nulla. Durante
l’esame del pm Giovanni Musarò, Schirone ha ribadito che non aveva avuto difficoltà a dire a viso aperto ai suoi colleghi le condizioni di Cucchi dopo il pestaggio.
Nel corso dell’udienza è emersa poi una circostanza importante. Ossia che il generale Alessandro Casarsa, uno degli imputati del processo, dopo aver domandato a Schirone se si rendeva conto di che peso avrebbero avuto per l’Arma dei carabinieri le sue dichiarazioni sullo stato di salute del ragazzo, la mattina dopo l’arresto gli chiese anche se avrebbe avuto piacere a tornare in Puglia, nella sua città. Nel linguaggio militare una frase del genere può apparire intimidatoria. Ilaria Cucchi posta la frase sul suo profilo Facebook senza commenti ma il sottinteso è evidente.
«É più che naturale che il generale Casarsa si sia preoccupato delle dichiarazioni di Schirone ma, a domanda precisa, il teste ha detto di non avere inteso quella frase come una pressione da parte dei vertici. D’altra parte Casarsa non aveva il potere di decidere su eventuali trasferimenti di un sottoposto» dice il suo difensore, l’avvocato Carlo Longari.
In applicazione di una circolare diffusa ieri, il giudice monocratico ha dunque disposto l’udienza a porte chiuse del procedimento sui presunti depistaggi messi in atto da otto carabinieri dopo la morte di Cucchi. Il giudice Giulia Cavallone, applicando la disposizione emessa dal presidente facente funzione della Corte d’Appello di Roma, Fabio Massimo Gallo, «ai fini della massima prevenzione possibile» per l’emergenza coronavirus, ha consentito l’accesso in aula solo alle parti processuali. Nella circolare la Corte d’Appello aveva infatti invitato i tribunali del distretto, sia civili che penali, ad organizzare le udienze in «fasce orarie» al fine di evitare «affollamenti nelle aule di udienza e negli spazi antistanti».