Minervini, gli spari sull’autobus e il coraggio della consapevolezza
Equando c’erano non costituivano un ostacolo: morivano anche loro. Dunque l’esecuzione sull’autobus. Un mese prima, il 12 febbraio, le Br avevano ammazzato il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Vittorio Bachelet in un corridoio della facoltà di Scienze politiche, alla Sapienza; due giorni prima, domenica 16 marzo, a Salerno era stato abbattuto il procuratore Nicola Giacumbi, colpito mentre tornava dal cinema con la moglie; il giorno dopo, 19 marzo, un commando di Prima linea uccise a Milano il giudice istruttore Guido Galli, pure lui all’università, prima di una lezione. Tre magistrati freddati in quattro giorni. Una carneficina.
L’emergenza ordinaria.
Il giudice Minervini ne era consapevole, e consapevolmente andò incontro al sacrificio sapendo che la nomina al vertice degli Istituti di pena avrebbe aumentato il pericolo di essere eliminato. Due giorni prima dell’attentato lo confermò al figlio, dandogli disposizioni su come riscuotere l’assicurazione e garantire assistenza alla moglie. “In guerra un generale non può rifiutare di andare in un posto dove si muore”, spiegò al ragazzo che lo ascoltava attonito.
Decise di proseguire la vita di sempre, gli concessero appena quarantott’ore. Ma il piombo di pistole e mitragliette non si fermò, mietendo altre vittime designate dalle bande armate rosse e nere. Tre mesi più tardi, il 23 giugno 1980, toccò ancora a una toga: il pubblico ministero romano Mario Amato, assassinato dai neofascisti dei Nar. Alla fermata dell’autobus, in viale Jonio, mentre aspettava il 391 per andare in ufficio.
Le parole al figlio «In guerra un generale non può rifiutare di andare in un posto dove si muore»