Arbasino e io, tra il Piper e l’Opera
Dagli anni Sessanta, gli aneddoti e le relazioni del grande scrittore scomparso
Ho incrociato per la prima volta Alberto Arbasino, attorno alla metà degli Anni Sessanta, al Piper: la mitica discoteca di via Tagliamento che per qualche tempo rivoluzionò le notti romane. Si andava a cena fuori, infatti, soprattutto il venerdì e il sabato sera, o al cinema o al teatro, e dopo era buona regola passare al Piper: dove, per un paio d’ore, confortati dai gin tonic e dai gin fizz, ci si dimenava in pista. Gli intellettuali che vivevano a Roma, liberati dal peso dei cappottoni sovietici lasciati al guardaroba, si divertivano molto. Tra questi, Alberto (che comunque mai fu comunista). E insomma, una notte occupavamo da più di dieci minuti fianco a fianco lo stesso metro quadrato - lui era già noto, aveva diciassette anni più di me che leggevo i suoi articoli sul Mondo, io avevo vent’anni ed ero ovviamente sconosciuto – quando a un trattò mi interpellò: «Ma noi ci siamo già visti?» Io risposi: «Non credo». Finì lì.
Più tardi, col fatto che lavoravo nell’ufficio romano della Rizzoli e da Paola Masino a Moravia, da Bassani a Garboli, conoscevo quasi tutti, conobbi e frequentai anche Alberto Arbasino. Ci vedevamo alle cene, per esempio in casa di Adriana Panni dopo i concerti dell’Accademia Filarmonica Roma o a casa di Bianchina Leonardi, la moglie di Tonino Leonardi uno degli ex proprietari del Corriere della Sera; oppure all’Opera; oppure ai concerti; o magari al ristorante, da Nino in via Borgognona, dove lui andava con il suo compagno Stefano, un uomo incantevole che viveva a Milano e non ho mai capito cosa facesse, ma sicuramente non era un pittore, né un famoso tenore, né dirigeva un’orchestra. Alle cene, Alberto arrivava immancabilmente con un pesantissimo catalogo di qualche mostra che aveva visitato in giro nel mondo per il padrone o la padrona di casa (uno ne donò pure a me) ed era l’ospite ideale: allegro, generoso, dominava la conversazione con racconti divertentissimi. Fra un atto e l’altro dell’opera, poteva essere la Walchiria o la Manon, raccontava tutte le Walchirie e tutte le Manon che aveva visto, con citazioni di cantanti, scenografi, registi. Lo stesso, all’Auditorium: prima in Via della Conciliazione, poi in quello di
Renzo Piano. Al ristorante, come un tempo facevano le persone educate, presentava Stefano e si alzava in piedi.
Arbasino è stata una delle persone più gentili che ho mai conosciuto. Quando gli mandavi un tuo libro (non so se poi lo leggesse) rispondeva immediatamente con una festosa cartolina «liberatoria», ma rispondeva intanto. Se lo citavi, oppure recensivi (come capitò a me per una riedizione del suo Anonimo Lombardo) scriveva letterine commosse. Non gli sfuggiva un articolo e se ti incontrava faceva in modo di dirtelo, o ti mandava una delle sue cartoline. Una volta avevo scritto, proprio sul Corriere, un piccolo articolo lamentando la scomparsa, a Roma, della società letteraria. Dopo una settimana mi arrivò una sua lettera e la fotocopia di un’altra lettera che gli aveva inviato un editore francese. A farla breve: era una carognata che gli aveva fatto un amico italiano, un critico importante (il segreto lo porterò nella tomba), al quale si era rivolto l’editore francese per chiedergli se valeva la pena tradurre Fratelli d’Italia. «Ecco qual è la società letteraria romana», era più o meno il commento di Arbasino.
Fratelli d’Italia, per essere sincero, il romanzo al quale ha lavorato per anni, è fra i suoi libri quello che meno mi ha convinto. Mentre leggo e rileggo Parigi, o cara, Sessanta posizioni, Ritratti italiani. Un ritratto italiano a sé è il prodigioso L’ingegnere in blu dedicato a Gadda, con le pagine irresistibili in cui si parla dei rapporti fra l’Ingegnere e
D’Annunzio. In Sessanta posizioni, meravigliosi sono gli incontri con Forster, con Eliot, con la Compton-Burnett, paragonata a una teiera di peltro. Ritratti italiani, se hai gente a cena, lo apri a caso, lo leggi a voce alta e fai felici i quattro superstiti della società letteraria romana che effettivamente è sparita.
Infatti, io ho seguito la malattia di Arbasino, grazie a un comune amico fiorentino, Piero Gelli, che tramite il fratello di Arbasino, aveva le informazioni. Ora rimangono i suoi libri, certamente. Ma è impressionante, almeno a me fa molta impressione, in questi giorni, pensare che tutta quella «cultura», tutta quella straordinaria «memoria» adesso non esistono più. Oppure, insieme alla bella intelligenza di Alberto, un uomo civile, un signore d’altri tempi, sono sprofondate in un buco nero.
Cartoline Quando gli mandavi un tuo libro rispondeva immediatamente