Corriere della Sera (Roma)

ORA DITECI CHE COLPA HA MIRELLA

- di Giuseppe Di Piazza

Mirella ha 32 anni, serve ai tavoli in un locale trendy del quartiere Prati. Almeno ha servito ai tavoli fino alla fine di febbraio. Poi è calato su di lei (e su tutti noi) il lockdown, mentre l’Italia veniva attraversa­ta da un’ondata lunga di paura e di morte. Così Mirella, come altri suoi colleghi, è stata messa in cassa integrazio­ne (in deroga) dal suo datore di lavoro. Così è rimasta chiusa in casa con i suoi due figli di pochi anni: per lei due mesi e mezzo di sofferenza, aggravata – come per moltissimi lavoratori italiani – dal mancato pagamento della cassa integrazio­ne. Fino a oggi non ha avuto un euro, malgrado le spettasse una parte consistent­e del salario. Ai primi di maggio, Mirella riceve invece una telefonata dalla padrona di casa che le intima di pagare due mesi arretrati di affitto. La donna risponde che non può, cerca di farle capire che lo stipendio non è arrivato, che pagherà dopo… La padrona di casa le spiega che quell’affitto è per lei indispensa­bile, tanto che senza non potrebbe a sua volta fare la spesa. E, con un grande imbarazzo, conclude dicendo che le manderà, purtroppo, l’avviso di sfratto.

È una storia vera, fatto salvo il nome, come tante ce ne sono.

Una storia che mette a nudo le grandi responsabi­lità della macchina italiana, una macchina quasi grippata dalla sabbia della burocrazia finita decenni fa nel motore. La vita di Mirella è ora appesa a un filo: riuscirà a tenersi l’appartamen­to? Ce la farà a dare un futuro ai figli? Intanto ha ripreso a servire ai tavoli del ristorante trendy, ma la sua vita, che non è stata colpita dal virus, è adesso quasi spezzata dalle conseguenz­e socioecono­miche del virus.

Molti si chiedono se è stato giusto bloccare l’Italia per salvare qualche migliaia di vite, sacrifican­do il futuro di milioni di lavoratori che oggi non sanno più come sbarcare il lunario. È stato giusto, perché il valore della vita è il primo da difendere, e su questo è difficile trovare chi è contrario (persino Boris Johnson s’è dovuto ricredere dopo aver preparato il suo popolo «a perdere molte persone care»).

Ma la vera domanda oggi è un’altra: perché lo Stato italiano, passata la furia del virus, non è in grado di tutelare la vita delle milioni di Mirelle? Che colpa ha questa donna? E il suo collega che non riesce a tornare al lavoro perché il giro d’affari del bar è troppo basso, perché non ha ancora ricevuto – anche lui – neanche un euro? Che colpa hanno tutti loro, comprese le duemila cuoche delle mense comunali che, esasperate, senza più un soldo per fare la spesa, hanno invaso piazza del Campidogli­o alla faccia del «distanziam­ento sociale»?

Qualche tempo fa abbiamo scritto che ogni domanda di cassa integrazio­ne in deroga veniva vagliata dalle Regioni, un iter lungo e meticoloso, poi trasmessa all’Inps che – come se niente fosse stato fatto fino a quel momento – ricomincia­va un iter lungo e meticoloso per controllar­e la domanda. Parliamo di mesi, con milioni di lavoratori chiusi in casa senza più stipendio. Una follia.

Ieri su questo giornale, Lilli Garrone ha scritto che nel Lazio, durante il lockdown, un milione di persone non ha potuto lavorare. Quanti di loro potranno riprendere a farlo? E come?

Nella nostra città, soltanto sfiorata dal virus (niente a che vedere con lo tsunami che ha travolto il Nord), moltissimi negozi resteranno chiusi, tante attività stenterann­o a riprenders­i. C’era un alternativ­a? Col senno di poi si potrebbe dire che forse il lockdown andava fatto a macchia di leopardo, con regole differenzi­ate. Ma nessuno di noi augurerebb­e al proprio peggior nemico di sedere i primi di marzo al posto di Giuseppe Conte. Sono state scelte convulse e difficilis­sime, fatte dal governo per tutelare la salute degli italiani. Nella fase 1 (lo tsunami) non sapevamo niente del nemico e abbiamo agito, come Paese, con le migliori intenzioni. Come ha scritto Antonio Preiti su questo giornale, la fase 1 del virus è stata democratic­a perché ha colpito senza riguardo di censo; ma la fase 2, con il divario socio-economico che sta creando, rischia di essere classista: i più tutelati ce la faranno, gli altri si facciano sfrattare.

È mai possibile? No, lo sappiamo. Nei mesi che abbiamo davanti – con i fondi che l’Europa sta per darci – dobbiamo rilanciare tutto e presto, togliendo la sabbia dal motore. La burocrazia non può e non deve più essere la padrona delle nostre vite. C’è una nuova emergenza, e non possiamo più combatterl­a a colpi di carta bollata.

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