Il Centro torni a essere un luogo di vita e produzione per i romani
Almeno una volta nella vita è capitato a chiunque di trovarsi tra due specchi e vedere la propria immagine riprodursi all’infinito, ma sempre nella stessa prospettiva. Ad ogni replica più piccina, fino a scomparire. La discussione oggi su «tavolini sì tavolini no» nel centro storico me la richiama alla mente.
Escluso il sommerso, nel 2019 sono arrivati a Roma oltre 19,4 milioni di turisti che si sono fermati in media per 2,4 giorni, il che fa 46,5 milioni di presenze (stime Ebtl arrotondate).
Tradotto, ogni giorno si sono riversati ad intasare il centro storico circa 130mila turisti, ma si arriva a 180mila se si calcola il sommerso stimato: sono «clienti giornalieri» del commercio che il Covid-19 ha fatto evaporare.
Ma questa è anche la dimensione del fenomeno che spingeva il centro di Roma, come nelle altre città d’arte europee, a trasformarsi in un bazar per turisti di passaggio. Un luogo meraviglioso divenuto sempre più spazio per consumare e meno per produrre (es. la scomparsa delle botteghe artigiane o di molti uffici) o per vivere.
Nella discussione sui dehors nel centro, le domande che nessuno fa ad alta voce, cui è necessario rispondere per prendere decisioni sensate suonano così: quei turisti torneranno a breve e nello stesso modo? Desideriamo in ogni caso che tutto torni come prima?
Il turismo d’oggi è un fenomeno mondiale. Produce Pil ma ha un altissimo impatto ambientale - come dimostrano la caduta della CO2 a causa dello stop ai voli, la riduzione dei rifiuti o del traffico - e sociale, per le condizioni precarie del lavoro ad esempio, specie dove si producono i prodotti di scarsa qualità. È improbabile che la domanda turistica torni rapidamente ai livelli degli ultimi anni e questo periodo deve servirci per avviare la trasformazione del centro storico di Roma, affinché torni ad essere un luogo di vita e produzione per tutti i romani e non solo per consumare (anche così si scoraggia la «malamovida»).
Per farlo serve consentire alla attività economiche di riprendersi dal colpo, anche al commercio nel centro storico di Roma, e per cambiare. È indispensabile alle imprese, a chi vive del lavoro, per la socialità. E questo implica, per la ristorazione come per le librerie, aumentare i loro servizi anche all’aperto, con rispetto per il patrimonio culturale. Consentire ai romani di prendere un aperitivo al tavolino a piazza Vittorio o di riappropriarsi delle piazze storiche dopo mesi di clausura è un fatto positivo, anche per la salute mentale delle persone oltre che per le attività. Fermarsi a questa constatazione e non guardare oltre invece non lo è.
Il turismo internazionale è una risorsa di Roma, ma un sistema globale che rischia il collasso dopo tre mesi di fermo è strutturalmente fragile. Il nostro futuro dipende prima di tutto dallo sviluppo e dalle ricadute del gigantesco apparato che produce conoscenza e cultura (università, ricerca, produzione culturale e industrie creative prima di tutto) di cui Roma è incredibilmente ricca e di cui troppo poco si parla.
Nelle scelte di questo periodo serve equilibrio e una virata decisa verso un modello di sviluppo sostenibile, trainato dalla produzione di beni e valori immateriali invece che dal solo consumo mordi e fuggi ad alto impatto ambientale. Le decisioni sui dehors, come tutte quelle di cui si è parlato fino ad ora, sono giuste in quanto a tempo, equilibrate e soprattutto utili per spingere le imprese a trasformarsi per resistere meglio alle crisi, ridurre l’impatto ambientale e migliorare la qualità della vita delle persone e dei luoghi in cui si svolge la loro attività. Altrimenti rischiano davvero di essere inutili, se non dannose.